Economia, società e politica: tutto si muove e non sempre in senso progressivo (le epidemie e i disastri naturali confermano). Come ricordava Z.Bauman dobbiamo accettare un fatto: ‘Poiché l’ideale della certezza è al di fuori della nostra portata individuale e collettiva.. la probabilità appare essere il miglior surrogato di cui possiamo disporre’. Questa consapevolezza cozza contro il nostro bisogno di sicurezze ma sia nella vita personale che nella vita sociale e lavorativa occorre attrezzarsi.

Così in ogni organizzazione le tecniche di change management aiutano a ‘tenere gli occhi aperti’ e stimolano innovazione. Prendiamo un esempio rilevante: le future politiche urbane pubbliche. I lockdown hanno accentuato la desertificazione commerciale e residenziale, provocando sentimenti contrastanti tra adattamento e ansia (Censis 2021) soprattutto tra i non garantiti ed ora occorre ricostruire un tessuto economico-sociale attrattivo nelle città, dove peraltro serve mobilità sostenibile. Il Recovery Fund aiuterà ma le amministrazioni locali hanno parecchio lavoro davanti.

Tenere gli occhi aperti comprende anche tecniche e programmi per prevenire e/o affrontare concretamente i rischi. Così le nostre policy pubbliche avrebbero dovuto aggiornare il piano sanitario antiepidemico che invece era fermo… dal 2005.

Anche in azienda sono molteplici i rischi possibili: organizzativi, finanziari o commerciali. Un recente contributo di McKinsey sottolineava tre componenti di un risk management ‘dinamico’: a) considerare nel business plan rischi possibili in rapporto a criticità interne ed esterne; b) analizzare le capacità di affrontarli in ordine di importanza accantonando relative risorse; c) decidere i piani di azione (what if) per ridurne gli impatti. (v.Dynamic risk management for uncertain times -2021)  

Partendo da una scaletta di domande ‘critiche’ si deve preallestire un gruppo di crisi ad hoc supportato da una comunicazione tempestiva e trasparente agli stakeholder. Così nel caso di forti insolvenze il nuovo Codice della Crisi (dl 125/2020 stimolato anche da questa epidemia) indica quattro step che – dopo un’analisi onesta dei motivi – possano evitare il default aziendale garantendo la continuità competitiva o almeno ridurne gli impatti negativi. 

Dunque per ogni processo di cambiamento il gruppo dirigente deve sviluppare (ed ‘oliare’) preventivamente un sistema di knowledge & risk management valorizzando sia le conoscenze/competenze interne ‘nascoste’ sia fonti esterne, a cui far seguire obiettivi, risorse e relative road map. E soprattutto nelle piccole aziende – affannate dalla tremenda quotidianità operativa – occorre l’aiuto di qualche consulente esperto che porti buone pratiche, le quali a volte fanno scoprire anche ‘qualcosa di buono che la crisi ha inaspettatamente suggerito’.

Di fronte al cambiamento nec spe nec metu. Solo programmi concreti.

Il 2020 è stato l’anno del Covid-19 e termini come lo smart working e il distanziamento sociale sono entrati a far parte del nostro vocabolario quotidiano. Questa modalità di lavoro si è senz’altro resa necessaria e utile nel limitare i contatti tra le persone per contenere una pandemia globale, ma ha sicuramente causato una perdita a livello umano. Le relazioni, le dinamiche e lo scambio di informazioni accidentali che si vengono a creare all’interno di un ufficio o di qualsiasi altro ambiente, non potranno mai essere sostituite da un rapporto instaurato tramite il computer, anche se per alcune persone può aver portato dei benefici come una maggiore confidenza nel parlare all’interno delle loro case. Il seguente articolo analizza i maggiori costi a livello antropologico causati dall’insediamento nelle nostre vite di questa nuova modalità di lavoro, con un’analisi sul sense-making e la necessità di interazione umana in un mondo completamente digitalizzato.

In questo articolo pubblicato su theguardian.com si parla di questi aspetti evidenziando ciò se perde lavorando da casa.

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Per riflettere sugli aspetti emotivi, psicologici e relazionali che emergono nelle persone e nelle aziende durante queste settimane propongo un’intervista a Riccardo Cicuttin, psicologo e consulente aziendale, esperto di risorse umane.

  1. In qualità di psicologo e consulente aziendale, quali sono le emozioni e i comportamenti che più ti hanno colpito in queste settimane nelle persone e nelle aziende?

L’essere messi a contatto con una improvvisa interruzione delle proprie certezze ha contribuito a far maturare una emozione di paura. Questa emozione si è diffusa in modo ampio e rapido, ma con forme di espressione molto diverse di caso in caso. Prima ancora che avventurarmi in una tassonomia di come la paura si è manifestata, posso citare alcuni casi con cui sono stato a diretto contatto.

Le prime fasi, diciamo verso la fine di febbraio, hanno interessato in modo particolare il settore fiere ed eventi. Gli operatori di quei settori si sono visti di punto in bianco annullare impegni e commesse con una velocità di cui non avevano mai avuto esperienza e con prospettive ignote. Vi lascio immaginare i volti di queste persone nel momento in cui, da una settimana all’altra, a volte anche in tempi più brevi, hanno sentito crollare le proprie prospettive di lavoro, magari con progetti già pronti, allestimenti per i quali avevano già acquistato materiali, persone che avevano già ingaggiato per i montaggi.

Entro poi in contatto con i settori che, pur avendo una riduzione dell’attività, tengono i battenti aperti e ricorrono a forme di gestione del personale orientate a limitare i danni (ferie e cassa integrazione).

Ci sono infine le attività che sono “costrette a chiudere” o che perlomeno non hanno le condizioni per svolgere il lavoro in modo sostenibile.

In questo panorama la paura si declina in modi diversi: c’è chi preso dal panico pensa di chiudere l’azienda, c’è chi ha appena fatto investimenti e, percependosi nell’impossibilità di farvi fronte nel modo in cui aveva previsto, mischia paura e senso di impotenza ricavandone una forma di rabbia.

In tutto questo però ho anche avuto modo di entrare in contatto con professionisti e aziende che, pur accettando controvoglia e loro malgrado la situazione critica, hanno trovato energie, stimoli e motivazioni per approfondire modalità di lavoro, servizi e fette di mercato che per loro erano fino a quel momento inedite o ritenute marginali.

Abbiamo quindi gli esempi di ditte di impianti termoidraulici che ragionano in modo consorziale per progettare e installare impianti di sanificazione, piccole o micro imprese del settore primario che si organizzano per spostare la lancetta del fatturato dal BtoB al BtoC attraverso la consegna a domicilio (orti, birrifici, aziende vinicole, piccole torrefazioni di qualità).

Certamente paura, incertezza, rabbia, delusione sono sentimenti spontanei e diffusi, per fortuna gli imprenditori lungimiranti e coloro ai quali non disturba uscire dalla propria zona di comfort stanno reagendo con un investimento di tempo ed energia in processi che fino ad ora non avevano trovato risorse per essere consolidati o portati verso migliori livelli di efficacia

  1. Il rischio che una grave epidemia potesse verificarsi è stato decisamente sottostimato in Italia e anche in altre nazioni sviluppate. Ora che è un evento drammatico con conseguenze sanitarie, sociali ed economiche senza precedenti si è verificato, in che maniera cambierà nelle persone e nelle aziende la percezione del rischio?

La percezione dei rischi ha spesso un substrato soggettivo, culturale, mediatico e di interesse molto difficile da sradicare, con la conseguenza di una vera e propria dispercezione.

Fenomeni sociali come il crimine, la violenza domestica, l’immigrazione subiscono poderose distorsioni cognitive e percettive che diventano successivamente scelte comportamentali e politiche importanti e spesso dannose.

Ma vogliamo cambiare ambito? Beh, pensiamo a quanto siano pericolose alcune abitudini che ciascuno di noi, a misure variabili, mette in atto quotidianamente. Se andiamo a confrontare la nostra percezione con i dati reali, potremo scoprire quanto siamo disposti ad assumerci a cuor leggero i rischi connessi all’utilizzo dell’automobile, del telefonino, del sesso non protetto, del consumo disordinato di alcool, di carni rosse, di cibo malsano o in generale di stili di vita che già sul breve/medio periodo possono causare gravi conseguenze alla nostra persona.

Fatta questa dovuta premessa credo che anche in questa occasione pandemica la società italiana abbia affrontato con grave ritardo l’occasione di ragionare, dati alla mano, sule reali cause e sulle reali precauzioni da prendere nei confronti del virus SARS-COV2.

Non parlo del sistema sociosanitario perché non ne sono esperto, cito però quella che a mio avviso è stato l’approccio grossolano al blocco ampiamente irrazionale delle “attività umane”: correre o passeggiare da soli non è rischioso ne per se stessi ne per gli altri, per prendere una cosa piccola (che poi piccola non è), cosi come si sono chiuse aziende seguendo una logica “per codice ATECO” anziché pensare che debba chiudere una azienda altamente meccanizzata, che potrebbe rispettare norme di prevenzione sanitaria, mantenendo viva la produzione e garantendo (proprio per l’organizzazione dei processi di lavoro) distanza sociale sicura tra gli operatori. Dall’altra parte abbiamo osservato che nei negozi di alimentari e della GdO le misure di prevenzione (dotazione di mascherine e guanti agli operatori, pannelli di plexiglass alle casse) sono state per molto tempo appannaggio della discrezionalità del management, anziché essere soggette ad urgenti interventi normativi.

Ecco, penso quindi che i meccanismi dell’informazione e della percezione del rischio stenteranno a cambiare nel breve periodo, anche perché sono soggetti a quei “bias cognitivi”, ovvero a quegli errori sistemici, dovuti proprio al funzionamento della persona, o per meglio dire dell’umanità. Cosa può o dovrà cambiare invece? Certamente la cultura dell’informazione, dell’approccio alla gestione dei dati, ed in particolare abbiamo sempre più bisogno di far lavorare insieme la ricerca quantitativa con l’analisi sociologica e psicologia dei fenomeni.

  1. A tuo modo di vedere man mano che le misure restrittive si allenteranno e via via si ritornerà a una vita normale, quanto rimarrà degli atteggiamenti prudenziali acquisiti in questi mesi? Cambieranno le abitudini o prevarrà la voglia di ritornare a quelle precedenti?

In parte ho già risposto sopra. A mio avviso comunque la pandemia ha portato alla luce i reali punti di forza e punti deboli delle diverse comunità. Osserviamo velocità ed ampiezze di diffusione molto diverse in diverse parti del mondo.

Non c’è ancora una accettazione ed una diffusione degli studi e delle ipotesi che spiegano queste diversità, ma sono convinto che molto sia interpretabile con un approccio culturale, ovvero ponendo l’attenzione sul complesso sistema di abitudini sociali, atteggiamenti, modalità di gestione delle comunità e del territorio, politiche e meccanismi di governance.

Auspico che cambino le abitudini, certamente. Auspico che si diffonda un ragionamento che ridefinisca il valore che attribuiamo ai diversi aspetti della vita.

Una osservazione: da un lato è innegabile che lo smartworking (parola che ai più era ignota prima del lockdown, e che ai più rimane parzialmente o completamente incompresa) non sia la panacea a tutti i mali, e soprattutto che non riesca a sostituire o supplire le attività professionali per come le abbiamo vissute fino ad ora, tuttavia vanno evidenziate alcune cose:

  • Abbiamo avuto esperienza di come siamo riusciti a fare lo stesso tante cose evitando l’uso dell’automobile
  • Ci siamo resi conto che il cambiamento dei processi lavorativi non è dato dal mero possesso di un computer o di un tablet, ma richiede un rinnovato approccio al lavoro
  • L’impatto ecologico del lockdown è importante

Lungi da me voler offrire una ricetta per “il nuovo mondo”, ma se prendiamo i tre punti appena citati come l’inizio di un ragionamento di riforma, credo che possiamo anche costruire un futuro dai toni interessanti.

Poi mi sento anche di dar ragione a Massimo Cacciari che chiude una recente intervista di una rivista online con queste parole “[…]non c’è nessuna rottura nella storia. Le teste di cazzo sono rimaste proprio uguali, identiche a com’erano prima del Coronavirus

  1. A mio parere fenomeni quali le fake news e le costruzioni di post verità continueranno anche dopo l’emergenza. Non credo che i no vax siano spariti e che gli scienziati mantengano facilmente il ruolo che stanno avendo in questi giorni. Ci sarà una maggior razionalità nelle decisioni future e negli schemi cognitivi delle persone?

No. Non sarà l’evento di per sé a generare cambiamento nei meccanismi di scelta e decisione.

Siamo umani, ed in quanto tali siamo “viziati” per natura. Siamo soggetti a meccanismi “difensivi” che spesso si rivelano disfunzionali nei confronti dell’approccio all’informazione ed alla decisione. Impossibile sbarazzarcene, ma invece è possibile esserne consapevoli ed imparare innanzitutto che questi meccanismi esistono, ed in seconda battuta imparare a governarli meglio.

Ribadisco una cosa di cui sono pienamente convinto, ovvero che l’epidemia del virus SARS-COV2, pur essendo imprevedibile e deflagrante, ha “solamente” portato a galla le fragilità del sistema culturale di cui siamo quotidianamente attori protagonisti. Non credo ci sia nulla di nuovo in questo: dagli atteggiamenti individuali alle misure di contenimento, dalla crisi finanziaria ed economica alle conseguenze nel mercato del lavoro (penso in particolare all’agricoltura massiva in questi giorni) abbiamo esempi di come le disfunzioni ed i problemi tamponati fino ad ora stiano emergendo in modo drammatico.

Inadeguatezza del sistema sanitario, obsolescenza del sistema istruzione, politiche del lavoro e lavoro nero, corruzione, malavita organizzata, e molto altro ancora, sono problemi della nostra società che si stanno manifestando in modo inequivocabile e li nega solo chi non li vuol vedere. Parlo di questo non per cambiare discorso, ma per portare l’esempio concreto di quanto fino ad ora siamo stati impreparati.

Possiamo cambiare, si. Una sfida difficile, lunga, molto impegnativa, ma possibile.

Ci sono a mio avviso alcuni ruoli chiave che dovranno assumersi la responsabilità di generare il cambiamento, di facilitarlo e di sostenerlo. Non parlo dei politici, è un ambito molto lontano da questa discussione e di difficile intervento.

Parlo invece di chi ha la possibilità, per professione e per frequenza di occasioni, di accompagnare le persone a esperire nuovi modi di prendere decisioni e di gestire la propria vita e la propria inevitabile partecipazione alla vita di comunità (di cui tutti siamo responsabili).

Innanzitutto, noi consulenti abbiamo un grande potenziale nella progettazione organizzativa e nell’accompagnare le aziende verso la creazione di valori positivi e sostenibili.

Hanno un ruolo importantissimo, determinante, insegnanti e educatori i quali hanno la possibilità di mettere in evidenza l’importanza non solo delle informazioni, ma soprattutto quella dei processi di apprendimento e relazione.

  1. Sul piano del rispetto delle regole quanto è contato un atteggiamento di paura per la propria salute e quanto un meccanismo razionale di accettazione della restrizione della libertà?

Ci tengo a precisare una cosa, non sempre l’emozione dalla paura è polarmente opposta o incompatibile con la razionalità, anzi, il concetto e le pratiche di sicurezza sono proprio il frutto di un lucido connubio tra una paura determinata dalla consapevolezza del rischio e l’organizzazione di comportamenti che ci tengano lontani da rischi inutili

Venendo all’insieme di regole che stanno governando le nostre vite in queste settimane: parer mio alcune hanno avuto un vero e proprio senso, altre invece sono state determinate ed applicate anche senza una stringente necessità.

Penso al controverso divieto di praticare sport all’aria aperta, anche in luoghi in cui il distanziamento sociale era garantito.

Insomma, le persone ragionevoli, quelle che hanno compreso i meccanismi di contagio, o che perlomeno hanno capito che i veicoli del virus sono efficaci entro una certa distanza o attraverso alcuni tipi di contatto, non sentivano la necessità di un controllo cosi stringente e punitivo. D’altra parte c’è stata una fetta di popolazione che non ha saputo adeguarsi a quanto normato.

Abbiamo tutti avuto coscienza poi di chi, pur muovendosi nell’ambito stringente delle disposizioni, ha assunto comportamenti diametralmente opposti a quelli del buon senso.

Porto un esempio sciocco, ma reale: se vai a correre da solo in un parco aperto, in una strada deserta o ancor meglio, come diciamo in Friuli, “in mezzo ai campi”, certamente sei al sicuro e non fari correre dei rischi a nessuno, ma contravvieni alle ordinanze; tuttavia hai la possibilità di farti il tour dei supermercati del paese comprando un pezzo da una parte, tre pezzi dall’altra e cosi via, mantenendo una rigorosa osservanza formale, ma esponendo te stesso e gli altri a forme di possibile contagio.

  1. Alcuni acuti studiosi hanno fatto notare che il distanziamento sociale e l’isolamento paradossalmente fanno emergere che la vita non era e non è tutta on-line. Le persone vogliono tornare a vivere le relazioni in maniera più reale. Che ne pensi?

Non saprei dare una risposta pronta. Credo una cosa però, che stando lontani gli uni dagli altri abbiamo avuto l’occasione di riflettere su quali sono le nostre relazioni soddisfacenti, quali sono le persone di cui davvero sentiamo la mancanza “fisica”. Mi auguro che avremo la forza e la determinazione di perseguire il desiderio di relazionarci in modo sincero e meno “schermato”. Questo va di pari passo con l’accettazione della nostra solitudine e con la costruzione della nostra autonomia individuale.

  1. In questi giorni ci stiamo accorgendo che molti lavori possono essere svolti a distanza. Credi che sia possibile continuare a lavorare a distanza o all’interno delle aziende gli aspetti legati alle questioni più umane (la motivazione, il clima aziendale, ecc.) delle relazioni torneranno ad essere protagonisti?

Ecco, questo è un tema importantissimo per la cultura professionale italiana in cui la presenza visibile è spesso confusa con produttività ed altrettanto spesso l’affidabilità de-facto è scarsamente misurata e valutata.

Anche in questo caso stiamo assistendo ad episodi di improvvisazione virtuale alquanto lacunosi.

Ma preferisco concentrarmi sulle aziende che già da tempo hanno progettato ed implementato sistemi per il telelavoro, o la gestione per obiettivi, o sistemi di delega e teamwork per cui non è strettamente necessaria la presenza simultanea nello stesso luogo. Per alcune di queste aziende abbiamo anche lavorato insieme, e tra telelavoro e part-time flessibili avevano addirittura aumentato la percezione di qualità del proprio lavoro da parte dei dipendenti, con conseguenti livelli di fidelizzazione del personale e clima decisamente buoni.

La mia speranza riguarda proprio l’apprendimento di una nuova cultura del lavoro, un tema certamente complesso, che potrebbe essere interessante articolare in un futuro prossimo

Un buon team è formato da persone autonome ed interdipendenti, e questo tipo di relazione può avvenire anche a distanza, certamente il contatto umano vicino, corporeo, è un aspetto irrinunciabile, cosi come la condivisione di un tempo informale e morbido, non strettamente dedicato alla produzione, ma che è comunque un carburante forte per la produttività.

Per tornare alla tua domanda: credo di sì, credo sia possibile ottenere risultati buoni e duraturi nel tempo anche per i team, le organizzazioni e le aziende che fanno una scelta “cyber”, a patto che si riescano ad alimentare anche driver relazionali forti. A mio avviso, ma qui so di tirare l’acqua al mio mulino, una esperienza di team building all’aria aperta, magari con una bella sfida da affrontare tutti insieme, crea un legame cosi importante che poi diventa elastico e resiste anche alla distanza.

Altre cose importanti per mantenere fiducia e buon clima in situazioni di smartworking o telelavoro?  Piattaforme di comunicazione funzionali, definizione di obiettivi e trasparenza dei processi, valutazione del personale a 360°, sia degli individui (tutti, capi compresi) che dei team.

La qualità delle relazioni è sempre protagonista!

  1. In questi giorni si sta dibattendo di come sarà il “new normal” dopo che saremo usciti da questa situazione. Cambieranno gli stili di vita ed è sicuramente necessaria un’economia più sostenibile. Tuttavia, abbiamo visto che per ottenere determinati comportamenti rispettosi delle restrizioni delle libertà e del distanziamento sociale si debba comunque ricorrere a sanzioni, controlli, elicotteri, polizia, militari etc. In futuro ci saranno probabilmente normative severe e sanzioni sul piano dell’inquinamento, della produzione di energia, della gestione dei rifiuti ecc. nelle aziende e per i cittadini. Tuttavia, il cambiamento passa anche e soprattutto attraverso l’educazione, l’informazione e la cultura. Condividi questo ragionamento? Che cosa puoi fare come consulente esperto di risorse umane per favorire lo sviluppo di un pensiero e di un modo di intendere il business diverso e più sostenibile? Che consigli potresti dare a chi esercita una leadership per sviluppare gli atteggiamenti necessari per sviluppare innovativi modelli di business o nuovi di stili di vita più sostenibili e che abbiano a riguardo un maggior grado di civiltà?

Domandona! Condivido il tuo ragionamento, pienamente.

Cosa possiamo fare come consulenti, o meglio come esperti di processo, cioè capaci di rendere esplicita la catena di eventi materiali ed immateriali che generano valore?

Certamente accompagnare gli imprenditori, e non solo, ad immaginare il mondo che desiderano. Mica è scontato riuscire a visualizzare uno scenario ambito, arricchendolo di dettagli e di sano protagonismo. Non è facile, ma è importante. Ed altrettanto importante, come passo successivo, riuscire a mettere in rilievo quali comportamenti, stili direzionali e scelte imprenditoriali vanno nella direzione di quel desiderio, concretizzandolo anche in piccoli passi.

Oggi la leadership si gioca sul piano dei valori, del riuscire a trasmettere agli altri le cose in cui credi e ad orientare in modo sano e onesto i comportamenti affinché i collaboratori sentano di contribuire a qualcosa di bello e positivo per loro stessi e per il mondo.

Entrano in gioco abilità comunicative ed organizzative importantissime. L’imprenditore diventa un facilitatore, ben oltre il professionista. Ed è un nuovo mestiere da imparare.

Si sta alzando la sensibilità verso i prodotti ed i servizi sostenibili, i clienti finali sono spesso orientati alle scelte di qualità e trasparenza.

Al giorno d’oggi esistono strumenti e tecniche per ottimizzare i processi produttivi e rendere il business redditivo, ci sono tantissime possibilità di formazione e sperimentazione.

Ma il primo passo è sempre lo stesso: che mondo desideri? E tu, attraverso il lavoro della tua azienda, in che modo vuoi contribuire a renderlo possibile?

Confrontarsi e condividere questi giorni di preoccupazione per il presente e per il futuro professionale nel nostro network di consulenti di management del Friuli Venezia Giulia. Scambiare informazioni, pareri, articoli, paper di esperti di management, ecc. Discutere di come aiutarci e aiutare i clienti nell’immediato e condividere possibili scenari e vie di uscita per il futuro.

Queste sono alcune ragioni che ci hanno stimolato a scrivere una veloce e breve raccolta di articoli. Riflessioni, domande, interviste e propositi che vogliamo rendere pubblici in questi giorni in cui ci si appresta a ripartire fra numerosi dubbi e preoccupazioni.

La raccolta dei nostri contributi è disponibile a questo indirizzo:

https://www.alessandrobraida.com/wp-content/uploads/2020/04/i-consulenti-di-management-del-fvg-e-il-coronavirus.pdf

 

Quali possono essere le azioni sulle quali concentrare le nostre forze nei prossimi mesi? Quali sono i consigli che possiamo proporre ai nostri clienti? Come possiamo aiutarci e come possiamo aiutarli? Su queste domande in queste settimane fra noi consulenti di management si è sviluppato un proficuo e intenso scambio culturale. Sono circolati articoli, link a video e a post diffusi attraverso la rete, studi di grosse società di consulenza e contributi di importanti docenti universitari italiani e stranieri. Con l’intenzione di dare una sintesi a questo complesso scambio di conoscenze, si vuole in questo spazio proporre quattro aspetti di rilevanza manageriale che pur se non esaustivi sono senza dubbio prioritari in questo momento nei rapporti fra consulenti di direzione e clienti.

 

 

  • Concentrarsi sullo sviluppo di piani per gestire l’emergenza. La crisi dell’offerta legata alla chiusura delle attività produttive e la contemporanea contrazione delle vendite ha determinato in molti settori un’immediata tensione finanziaria che ha costretto le imprese a intervenire rapidamente sul piano del controllo dei costi fissi. Al contempo, le direzioni aziendali si stanno concentrando sulla pianificazione finanziaria cercando di trovare la liquidità immediatamente necessaria attraverso l’utilizzo dei diversi provvedimenti legislativi. Tali decisioni sono improrogabili, tuttavia, anche in queste fasi, non bisogna commettere l’errore di operare senza una pianificazione di breve termine e, per quanto possibile, di più ampio respiro. In particolare, come evidenziato in un recente contributo di Alberto Bubbio[1], è opportuno dotarsi di una pianificazione della contingenza che risponda all’esigenza di “reagire nel breve, senza perdere di vista il medio-lungo termine”. È utile una pianificazione snella anche se condivisa con chi deve portare avanti le macro-azioni concrete. Tale pianificazione deve avere altresì una valenza di autoapprendimento che consenta cioè di aiutare “a capire quali sono state le scelte vincenti e quelle che si sono dimostrate perdenti”.

 

  • Rivedere le strategie per la gestione del rischio. La probabilità di accadimento di eventi catastrofici futuri dovrebbe, per le imprese, subire un deciso rafforzamento in conseguenza della veloce diffusione del nuovo virus e del suo impatto psicologico, sociale ed economico. In chiave di sostenibilità ambientale e sociale ma anche di buon senso, ciò significa che nell’elaborazione delle nuove strategie le imprese dovranno operare su diversi fronti quali la riduzione o l’eliminazione delle produzioni ad alta intensità di carbonio, l’efficientamento energetico, il ridisegno delle filiere con la costruzione di catene di fornitura più brevi (con importanti conseguenze nella gestione della logistica). Significa anche implementare piani per la sicurezza e per la gestione di future emergenze. Molte aziende dovranno trovare le risorse per sostenere importanti investimenti destinati a cambiare le loro infrastrutture. Tra le esperienze personali, ricordo che già nel corso del 2019 l’azienda CAFC S.p.A., durante la presentazione del suo report di sostenibilità, parlò dei suoi piani d’investimento a lunga scadenza per mitigare gli impatti sulla rete idrica delle conseguenze del cambiamento climatico e dei nuovi regimi di precipitazione.

 

  • Continuare con lo sviluppo dell’innovazione e della digitalizzazione delle imprese elevando il ruolo delle risorse umane e dei talenti. I modelli di business delle imprese dovranno tener conto della forte accelerazione che l’utilizzo delle tecnologie emergenti avrà sui loro processi produttivi e nella gestione dei rapporti con il cliente finale. Crescere ed innovare attraverso l’utilizzo di tecnologie quali il 5G, l’industria 4.0 e l’intelligenza artificiale rappresenta una grande sfida. Nell’organizzazione del lavoro l’esplosione dello smart working di questi giorni troverà continuità con una crescita dell’utilizzo di strumenti che permettono di sfruttare la realtà aumentata e la realtà virtuale. Tuttavia, il lavoro non è e non diventerà completamente on-line. La crescita delle competenze delle persone richiede un importante sforzo nella gestione del personale. Il ruolo della leadership dovrà essere adeguato e richiederà un intelligente sviluppo dell’empowerment delle risorse umane. Ciò significa sviluppare team affiatati, competitivi, capaci di lavorare per obiettivi e di auto-organizzarsi. Questi aspetti difficilmente potranno essere sviluppati senza un attento lavoro dei leader aziendali sulle modalità di relazionarsi nei luoghi di lavoro. Essi, dovendo intervenire sui processi e sul clima di lavoro, non potranno prescindere da una dimensione relazionale che non si svilupperà solo a distanza.

 

  • Sviluppare logiche di condivisione della propria strategia con gli stakeholder. La shut-in economy che stiamo alimentando in questi giorni lascerà profonde tracce nelle persone anche quando il virus sarà definitivamente sconfitto. L’emergere di nuovi bisogni e le consapevolezze maturate hanno già cambiato le preferenze e le modalità d’acquisto di beni e servizi. Ciò significa che nel ridisegnare i modelli di business la relazione con il cliente sarà fondamentale e ancor più che in precedenza si dovrà progettare offerte allineate con i bisogni espressi e latenti dei consumatori. Ad esempio, in un recente articolo pubblicato dalla nota società di consulenza McKinsey & Company, si propongono sette strategie per rispondere ai bisogni di sicurezza e ridisegnare nuove esperienze d’acquisto dei clienti. Tale modo di operare deve allargarsi anche agli altri portatori di interesse dell’azienda ponendo al centro delle proprie strategie il rapporto con i dipendenti, i fornitori della propria filiera, e anche con le altre imprese con cui sviluppare logiche aggregative. In questi giorni stiamo assistendo a uno scontro tra istituzioni nazionali e regionali e rappresentanze delle imprese e sindacati legato alle misure per far ripartire le fabbriche e le attività commerciali in sicurezza. Appare evidente come la chiave per ripartire sia invece legata a un maggior dialogo e a una partecipazione attiva e responsabile dei lavoratori, dei sindacati che li rappresentano e delle associazioni di categoria. Non è forse questa la logica dell’auto-organizzazione? Se, come alcuni sostengono[2], andremo in contro ad una globalizzazione meno incentrata sullo scambio di beni su lunghe distanze e a una riscoperta dei mercati locali, questo significa anche saper gestire in maniera diversa i rapporti con i fornitori e con gli stakeholder del territorio quali le istituzioni, i cittadini e gli enti del Terzo Settore. La capacità di imparare nel tempo, ciascuno in ragione della sua dimensione e del suo settore, come ridefinire il proprio modello di impresa integrando al suo interno le questioni rilevanti per gli stakeholder esterni consentirà l’individuazione di nuove strategie e sarà una chiave per contribuire a generare nuovo valore. In un libro[3] del 2010 intitolato “Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi” lo studioso di management Enzo Rullani si esprimeva in questi termini “La risposta più ragionevole è di tipo metodologico: bisogna abituarsi a ragionare e decidere in altro modo. La nuova sostenibilità che cerchiamo non deve scaturire da un limite esterno posto allo sviluppo, ma da una capacità di autoregolazione dello sviluppo stesso da parte dei soggetti che sono interessati a migliorare la propria qualità della vita e il proprio benessere, e che desiderano che le premesse dello sviluppo non vengano dissipate da automatismi irresponsabili”. Fa effetto come queste parole scritte a pochi mesi dallo scoppio della crisi del 2008 risuonino oggi come estremamente attuali.

 

Alessandro Braida

Aprile 2020

 

[1] https://www.paroledimanagement.it/il-contingency-plan-pianificare-per-uscire-dalla-crisi/

[2] https://www.newstatesman.com/science-tech/coronavirus/2020/03/far-making-nations-more-insular-coronavirus-outbreak-will-transform

[3] Rullani E., Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi, Marsilio, Venezia, 2010, p. 89.

 

Di seguito si propone il contributo pubblicato a nome di Alessandro Braida, Carlo Baldassi e Stefano Paoloni su IL FRIULI del 10 aprile 2020.

 

Tra i tanti problemi economici e finanziari è prioritario affrontare la forbice tra incassi (mancati) e costi (quotidiani). Molte voci sollecitano i decisori politici sul rischio che – causa ristrettezze del credito bancario – numerose piccole imprese possano essere costrette a chiudere o cercare liquidità anche dalle mafie. Urge garantire l’erogazione di credito (sospendendo in modo ragionato anche la severità della centrale rischi) ed eventualmente permettere deroghe nella compilazione dei futuri bilanci. Un gruppo di economisti veneti dell’Università di Padova ha proposto di considerare parte dei costi fissi sostenuti dalle aziende che non trovano al momento corrispondenza nei ricavi come ‘costi a ricuperabilità differita’, in sostanza come investimenti ammortizzabili in 5 anni. Questa modalità potrebbe riguardare ovviamente anche i servizi per l’innovazione (come le consulenze) che al momento sono bloccati.

Un gruppo di consulenti di management del Friuli VG – Carlo Baldassi, Alessandro Braida, Stefano Paoloni

 

PREMESSA – PER INNOVARE IL SISTEMA ITALIA OCCORRE VALORIZZARE LA ‘SOCIETÀ DI MEZZÒ’ E IL NON PROFIT – a cura di Carlo Baldassi [1]

Cos’è la ‘società di mezzo’
Il termine disegna le molteplici forme di impegno collettivo, rispecchia i valori della società civile e comprende agenzie pubbliche, sindacati d’impresa e dei lavoratori, ordini e associazioni professionali, Università e centri di ricerca. Un sistema di valore strategico, che – se ben gestito – costituisce una carica di ‘energia reale’ che si oppone positivamente alle attuali società ‘liquide’ e contraddittorie e rappresenta un contrasto alle stesse pericolose manifestazioni di quella che il sociologo Colin Crouch indica con il termine ‘post-democrazia’.
 Il Terzo Settore
Di particolare rilevanza le esperienze associative e volontarie (il Terzo Settore – TS) costituito da associazioni (sportive, culturali, assistenziali, cooperative sociali ecc.) di cui l’Italia è esempio internazionale.
Anche il Friuli Venezia Giulia ne è ricco e per alcune è ai vertici in Italia. Questo vasto mondo in regione ha circa 10.500 Istituzioni Non Profit – con 170 mila volontari e quasi 20 mila dipendenti. La riforma del 2017 ne indica un’evoluzione organizzativa e culturale che può alimentare la società civile e favorire anche reti territoriali di complementarietà.
I capisaldi del TS sono cittadinanza attiva e generosità ma anche rappresentanza e sviluppo di interventi a beneficio della coesione sociale: lo abbiamo visto in molti eventi luttuosi sino all’epidemia da coronavirus Covid-19 di questi mesi. Così oggi è possibile un welfare multicontributivo attuato da Comuni, Non Profit e For Profit evoluto per rendere il principio del dono più efficiente e adeguato alle nuove esigenze di un sistema sociale in evoluzione in cui operino parallelamente cooperazione e competizione virtuosa (ma sempre con il controllo pubblico).
Tuttavia, nelle nostre attuali società ‘liquide’ e contraddittorie le difficoltà per il Terzo Settore non mancano: dal calo di partecipazione volontaria alle necessità di nuova governance, dalla capacità di raccogliere risorse (crowdfunding) alle propensioni a fare rete. Queste sfide comportano perciò una maggiore sensibilità e capacità manageriale sia delle realtà del volontariato che degli stessi Centri Servizio regionali, a cui la moderna consulenza di direzione guarda con crescente interesse e a cui essa può apportare contributi significativi. L’esperienza che stiamo sviluppando con il Centro Servizi Volontariato in Friuli Venezia Giulia ne è un esempio che il collega ed amico Alessandro Braida qui illustra ottimamente e può costituire anche una buona pratica di valore nazionale.

LA CONSULENZA DI MANAGEMENT E GLI ENTI NON PROFIT – Il caso del Centro Servizi Volontariato del Friuli Venezia Giulia – a cura di Alessandro Braida

INNOVAZIONE E RIORGANIZZAZIONE DEL CSV FVG NEL CONTESTO DELLA RIFORMA DEL TERZO SETTORE

 L’articolo 63, c. 1 e c. 3 del Codice del Terzo settore (Decreto Legislativo 3 luglio 2017, n. 117) impone al Centro Servizi Volontariato del Friuli Venezia Giulia (CSV FVG) una nuova mission che consiste nell’orientare i suoi servizi verso il fine di “promuovere e rafforzare la presenza ed il ruolo dei volontari negli enti di Terzo settore, senza distinzione tra enti associati ed enti non associati, e con particolare riguardo alle organizzazioni di volontariato”. Questa impostazione giuridica rappresenta una svolta notevole in quanto il CSV FVG dovrà ora svolgere le sue attività spingendosi in maniera diretta nei territori con lo scopo di capacitare i volontari ed elevare il grado di auto-organizzazione delle associazioni in una logica di rete con gli altri attori e al servizio della coesione sociale.

Questa evoluzione presenta un orizzonte in cui il numero dei potenziali utenti del CSV FVG è destinato a crescere e a diventare eterogeneo. In tempi normali gestire questa situazione sarebbe possibile solamente attraverso una maggiore disponibilità di risorse finanziarie, umane e strutturali per sostenere e governare il processo di cambiamento in atto. Nell’odierna epoca della complessità si presenta, invece, esattamente la situazione opposta: il CSV FVG si trova a dover fronteggiare una riduzione delle risorse citate.

La conseguenza è che non è più possibile impostare la propria strategia facendo leva su un sistema dove le risorse disponibili costituiscano il limite della propria capacità produttiva; ciò renderebbe non sostenibile il nuovo corso imposto dalla riforma. Servono nuove soluzioni organizzative e tecnologiche capaci di tener conto dello scarto tra l’espansione dell’utenza effettiva e la capacità di reale risposta. In altre parole, come sottolineato dal Direttore del CSV FVG Federico Coan in un convegno tenutosi a Udine, è necessario “Capacitare il volontariato e valorizzarlo come «community», come bene comune e risorsa in sé e per sé”.

Svoltare in questa direzione implica necessariamente un cambiamento del modello di business che non potrà più essere quello che ha per protagonista un ente orientato alla mera erogazione del servizio quanto piuttosto quello di un’organizzazione moderna capace di scrutare all’esterno ricercando, entro logiche di rete, l’interazione fra le risorse e le competenze messe a disposizione dalla comunità di riferimento. In altre parole una logica prosumer dove produttori e consumatori diventano interscambiabili nel loro ruolo.

In sostanza quello che il CSV FVG sta realizzando è l’implementazione di un «modello piattaforma» dove il ruolo delle nuove tecnologie è cruciale ma deve essere accompagnato anche da azioni di facilitazione e di coordinamento nelle progettualità espresse nei territori dove le associazioni e i volontari operano. Grazie alle tecnologie informatiche oggi è possibile dare forma concreta a questo nuovo modello organizzativo tanto che il CSV FVG sta lavorando a una piattaforma collaborativa, denominata “Gluo”[2], che si trova attualmente in fase di lancio. Ai CTA[3] (Coordinamenti Territoriali d’Ambito) che, come indicato nell’ultimo bilancio sociale del CSV FVG rappresentano “la modalità privilegiata per tradurre, sul piano programmatico e operativo, il principio di territorialità e di prossimità, sancito dal comma 3.c dell’Art. 63 del D. Lgs 117/17.” viene affidato il ruolo fondamentale di coltivare fiducia, influenza e reputazione attraverso la prossimità. Sono i CTA con i loro facilitatori e coordinatori di progetto a permettere la diffusione nei territori e nelle comunità locali di quelle reti fra le associazioni di volontari che rendono effettive le relazioni generative. La loro azione, facendo leva sulla collaborazione e la condivisione delle conoscenze, è fondamentale perché aumenta il livello della fiducia reciproca senza la quale non sarebbe possibile far funzionare alcuna rete.

All’interno di questo processo di cambiamento il CSV FVG è destinato ad assumere il ruolo del player di riferimento di un ‘hub generativo’ capace di moltiplicare le risorse e promuove la significatività del volontariato. Tale evoluzione, tuttavia, deve passare attraverso un ripensamento dell’assetto organizzativo dell’Ente. Il CSV FVG sta affrontando un percorso di innovazione organizzativa anche a livello delle risorse interne: deve gestire un passaggio ineludibile che gradualmente porterà a una struttura organizzata e gestita attraverso moderni principi manageriali tipici delle aziende profit. Si tratta di un passaggio radicale che richiede un ripensamento di tutto l’ente: nelle persone, nei processi, nella struttura e nella tecnologia.

 

IL PROGETTO CONSULENZIALE – LA CONSULENZA DI MANAGEMENT IN UN ENTE NON PROFIT

 Nel corso del 2019 in questo contesto si è sviluppato un progetto di consulenza di management che chi scrive, assieme al dott. Carlo Baldassi, ha condotto e sviluppato attraverso molteplici attività di affiancamento alla Direzione generale nell’attuazione del suo programma di innovazione organizzativa. La consulenza si è incentrata su alcuni importanti obiettivi:

  • mappare le dinamiche e i flussi dei processi presenti nell’organizzazione con particolare attenzione al rapporto fra la struttura dei collaboratori interni e le attività svolte nei CTA dai facilitatori esterni.
  • Valutare e individuare eventuali modalità di cambiamento e/o miglioramento organizzativo, di ottimizzazione dei processi e, laddove possibile, degli indicatori di risultato definiti, tenendo conto dell’organigramma già delineato dal CSV FVG, in ragione della sua evoluzione verso il modello piattaforma precedentemente descritto e dell’assetto di erogazione dei servizi.
  • Motivare attraverso un approccio coinvolgente i collaboratori del CSV FVG e la rete dei facilitatori dei CTAnell’ambito del processo di ottimizzazione organizzativa in atto.
  • Operare in raccordo con le figure di coordinamento per individuare e accompagnare all’utilizzo dei nuovi strumenti e procedure a supporto di servizi consulenziali evoluti il personale dipendente e non di CSV FVG.

L’orientamento alle esigenze espresse dai volontari del territorio è stato posto al centro di tutto il percorso di affiancamento; già in una fase che potremmo definire propedeutica al progetto stesso, sono state effettuate alcune interviste ad alcuni operatori del CSV FVG e ad alcuni coordinatori di progetto e facilitatori operanti nei diciotto CTA regionali. Nel contempo durante le docenze svolte dagli stessi consulenti nel ciclo di seminari «Tagliando e collaudo» organizzati dal Centro essi hanno incontrato circa cinquanta associazioni in tutta la regione Friuli Venezia Giulia raccogliendo numerosi sensazioni e pareri ed offrendo primi strumenti utili.

Gli incontri dei seminari hanno avuto quindi sia una valenza formativa verso gli enti del terzo settore (ETS) sia una valenza di partecipazione attiva.

Tali seminari hanno fornito delle indicazioni importanti tra cui: la presenza di un universo eterogeneo per obiettivi, struttura organizzativa, conoscenze gestionali etc. degli ETS; la conoscenza parziale dei servizi erogati e del ruolo del CSV FVG da parte delle associazioni; il misto di interesse e di preoccupazioni per l’evoluzione del terzo settore a seguito della riforma 117/17; l’esigenza da un lato di servizi di base dall’altro legata più ad aspetti progettuali, strategici e organizzativi. In particolare, tra i nuovi servizi emerge l’esigenza di supportare gli ETS nei loro meccanismi di Governace e di accompagnamento verso l’offerta di servizi specifici dettati da nuove missioni (Fundraising, Crowdfunding etc.).

Di rilievo, infine, la tematica del cambiamento generazionale. Il volontariato, specie quello dei più giovani, si esprime attraverso nuove e molteplici forme che costituiscono una situazione di fatto.

Il servizio consulenziale è partito da questi presupposti e si è protratto sino alla fine del 2019 attraverso una continuità di confronti con la Direzione generale e con l’intero staff che presiede le funzioni strategiche del CSV FVG. L’approccio che ha caratterizzato la consulenza si è basato su criteri partecipativi legati al coinvolgimento dei collaboratori del CSV; da questo punto di vista, si è registrata una professionale adesione da parte di tutto il team delle persone con cui si è collaborato e si può ritenere che il percorso di interazione continua abbai avuto una valenza motivante verso il cambiamento. Nello specifico, gli elementi centrali ovvero gli output della consulenza sono stati i seguenti:

  • l’introduzione di un primo percorso di pianificazione finalizzato a costruire la struttura per il budget delle attività a partire dal 2020. Ciò si è reso necessario per fornire un sopporto alla Direzione generale nelle riunioni con i coordinatori delle funzioni al fine di migliorare e rendere più efficace il processo decisionale. Importante sottolineare come tale attività abbia previsto sin dall’inizio un approccio finalizzato alla responsabilizzazione dei coordinatori in maniera da renderli consapevoli e coinvolti nel percorso di crescita del CSV FVG: così operando, il budgeting diventa la modalità efficace per responsabilizzare l’organizzazione verso il perseguimento della mission mantenendo sotto controllo i costi e allineando reciprocamente nelle rispettive attività i diversi responsabili valutandone le attività.
  • Un supporto costante alla direzione generale e al team dirigente attraverso formazione on the job e motivazione al cambiamento. I numerosi confronti supportati dall’analisi organizzativa hanno reso possibile un’attività di indirizzo alla Direzione generale che successivamente ha rielaborato un nuovo organigramma aziendale. Tale nuova formulazione rappresenta un passaggio di estrema importanza in quanto costituisce la base per migliorare il coordinamento delle attività di animazione dei territori sia da parte del CSV FVG sia da parte dei CTA.
  • Un supporto nell’identificare nuove competenze e nuove funzioni da introdurre nell’organizzazione. In futuro le attività svolte all’interno dei CTA sono destinate a far crescere il capitale sociale inteso come patrimonio di relazioni fra i volontari e le loro associazioni. La platea degli utenti che si rivolgerà al CSV FVG sarà eterogenea per richiesta e per dimensione e il flusso dei dati che attraverso le nuove piattaforme digitali sarà possibile raccogliere richiederà un ruolo strategico per la funzione di staff denominata User Experience Management. Tale area dovrà segmentare gli utenti e strutturare i servizi in ragione delle caratteristiche dei diversi fruitori.

Un’importante considerazione deve essere espressa per comprendere come l’apporto consulenziale rappresenti un momento di accelerazione per l’evoluzione futura di un’organizzazione come quella del CSV FVG. Il Change Management (ovvero l’insieme dei processi dediti alla gestione del cambiamento) è una disciplina che si propone di supportare le persone con opportuni strumenti, patrimonio della cultura manageriale, nell’introduzione e nella gestione dell’innovazione all’interno delle organizzazioni dove esse operano. Ciò che caratterizza ogni progetto di cambiamento all’interno di un’organizzazione è anche la sua progressiva irreversibilità, perché in ogni caso via via l’organizzazione non sarà più la stessa.

Cambiare significa introdurre nuovi metodi di lavoro, nuovi strumenti e soprattutto coinvolgere i collaboratori motivandoli al raggiungimento della mission aziendale. In definitiva, la leadership presente e futura del CSV FVG ne dovrà tener conto governando flessibilmente il processo attivato nella direzione dell’accrescimento delle competenze manageriali e organizzative alimentate da logiche di apprendimento continuo da parte di tutti i suoi collaboratori. Da questo punto di vista il ruolo del consulente di management rimane vitale in quanto capace di apportare cultura d’impresa, competenze nella gestione dei processi e anche quelle relazioni con il territorio capaci di alimentare l’hub dei servizi che si vuole realizzare.

[1] Carlo Baldassi dopo una lunga esperienza come manager opera come consulente di management e formatore nelle piccole e medie imprese italiane e nelle loro associazioni di categoria. Nel corso del 2018 ha pubblicato un saggio dedicato al Non Profit Friulano del quale è profondo conoscitore.

[2] https://gluo.org/gluo/

[3] I Coordinamenti Territoriali d’Ambito (CTA) esprimono una modalità di organizzazione ed espressione del volontariato regionale, accompagnata e sostenuta dal CSV FVG, finalizzata a promuovere la crescita della cultura della solidarietà e della cittadinanza attiva attraverso lo sviluppo di un sistema di relazioni e collaborazioni tra sodalizi che permetta al volontariato di un dato territorio di proporsi agli stakeholder locali, ed essere da questi accreditato, come interlocutore privilegiato, autorevole e competente. I “progetti/iniziative CTA”, accompagnati e sostenuti dal CSV FVG, hanno tutti il medesimo obiettivo: far crescere la cultura della solidarietà, promuovere e sostenere il lavoro di rete e il sistema locale del volontariato.

L’economia, nella definizione proposta da Stefano Zamagni, è da intendersi come “la scienza delle decisioni di soggetti razionali che vivono in società, volta a suggerire linee di azione migliorative del benessere collettivo”[1]. Vale a dire che essa è da intendersi come una scienza sociale che assume una dimensione civile e che rivaluta le posizioni del filosofo ed economista napoletano Antonio Genovesi (1713-1769) che si contrapponevano a quelle del modello dell’economia politica classica.  L’essere umano non viene inteso come nel concetto ripreso da Thomas Hobbes ovvero come “Homo Homini lupus” bensì come “Homini natura amicus” ovvero come soggetto al centro del pensiero economico. In quanto tale, egli è un individuo empatico, cercatore di senso che non agisce unicamente per massimizzare i profitti.

Questo assunto assieme ai principi cardine dell’economia civile, come la generatività, la reciprocità, la gratuità, la fiducia, la fraternità, il senso di comunità, costituiscono il punto di partenza del corso, dedicato a formare la figura del valutatore d’impatto, organizzato dalla Scuola di Economia Civile e da Goforbenefit S.r.l. Società Benefit. La frequenza di questa esperienza formativa mi ha permesso di raggiungere la certificazione delle competenze presso CEPAS[2].

Una teoria economica di mercato fondata sui citati principi è capace di guardare al raggiungimento del bene comune e richiede la proattività dei suoi attori.  Le imprese, e le organizzazioni profit e non profit in genere, attraverso le loro attività devono generare valore per i loro stakeholder (portatori di interessi) in quanto soggetti influenzati dalle loro decisioni ma anche capaci di rivendicare posizioni che determinano le scelte delle aziende. La conseguenza è che il cambiamento che l’organizzazione produce nel suo ambiente di riferimento deve essere misurato e si presta a essere rendicontato attraverso la valutazione dei suoi impatti positivi e negativi.

Cosa si intende per valore generato?  Il tema del valore naturalmente è estremamente ampio e non può essere certo riassunto in questo contributo. Tuttavia, è possibile formulare qualche considerazione prendendo a riferimento i “concetti fondamentali” presentati all’interno del framework dell’IIRC[3] per la predisposizione del report integrato. Secondo questi concetti il valore non viene unicamente creato all’interno dell’organizzazione o da essa individualmente, in quanto è influenzato dall’ambiente esterno, dalle relazioni con gli stakeholder e può derivare da diverse fonti. Esso “si manifesta attraverso gli aumenti, le riduzioni o le trasformazioni dei capitali provocati dalle attività aziendali e dai relativi output”. Il valore è creato sia per i fornitori di capitale finanziario, che valuteranno i loro ritorni economici, sia per altre entità. Esso deve essere considerato in ragione delle interconnessioni fra i “sei capitali” attraverso i quali si organizzano le molteplici attività aziendali: capitale finanziario, capitale produttivo, capitale intellettuale, capitale umano, capitale sociale e relazionale e capitale naturale.

Il Bilancio di esercizio fornisce informazioni sugli aspetti patrimoniali, economici e finanziari, ma non è in grado di trasmettere, da solo, la complessità degli aspetti che fanno riferimento alle dinamiche che influenzano il valore generato. Per questa ragione, noi consulenti di management da qualche anno stiamo imparando a conoscere nuove tecniche di rendicontazione non finanziaria capaci di misurare gli effetti delle attività d’impresa su un piano diverso legato alle strategie per la responsabilità sociale d’impresa e per la sostenibilità. Tale processo ha ottenuto un’accelerazione grazie ad alcune disposizioni di legge: l’obbligo per le società di grandi dimensioni di redigere la dichiarazione non finanziaria[4] e l’obbligo di presentare le valutazioni d’impatto stabilito per le Società Benefit e, a certe condizioni, per alcuni enti del Terzo Settore.

La crescita dell’interesse per la rendicontazione non finanziaria è senza dubbio un elemento positivo per il nostro sistema economico, tuttavia presenta anche qualche rischio. Il bilancio sociale, il bilancio (o report) di sostenibilità, il bilancio ambientale ecc., realizzati liberamente o in conformità alle principali linee guida elaborate a livello nazionale e internazionale, rischiano di diventare strumenti di marketing e comunicazione fini a sé stessi. Se i principi dell’economia civile e la ricerca di una politica per la sostenibilità integrata nelle proprie strategie aziendali non sono dei punti di riferimento per il business dell’azienda, il risultato finale, destinato a esaurirsi in se stesso, sarà quello di aver utilizzato uno metodo di rendicontazione avanzata per fare più o meno consapevolmente un’operazione di greenwashing.

Richiamando alcuni concetti presentati dalla docente universitaria Chiara Mio durante il seminario “L’importante è rendicontare” tenutosi presso il Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale lo scorso ottobre a Milano potremmo chiederci allora, che cosa può un’organizzazione rendicontare e a quali standard di rendicontazione si può appoggiare se nella migliore delle ipotesi ha fatto qualche sporadica iniziativa di Charity o al massimo nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa? Come può un’azienda presentare un report di sostenibilità addirittura utilizzando rigorosi standard come quelli previsti dall’organizzazione Global Report Initiative se non esiste un modello di business elaborato all’interno dei paradigmi della sostenibilità ambientale, sociale ed economica?

Per evitare di incorrere in questo pericolo, il consulente chiamato dalle aziende a operare come valutatore d’impatto deve disporre di conoscenze, metodi e strumenti adeguati a interpretare la situazione e guidare il management verso scelte opportune e legate alla creazione di nuovo valore. Ciò vale anche nella scelta della metodologia per valutare gli impatti e sviluppare la loro rendicontazione. Durante il citato percorso formativo diverse sono le tecniche che sono state presentate: lo SROI, i GRI Standards, il framework dell’IRFC, il BIA e le realtà delle Società Benefit, la matrice del bene comune, la matrice dell’economia civile, il BESA ecc. Il valutatore di impatto deve conoscere queste tecniche e mantenersi aggiornato con ciò che viene continuamente proposto in ambito accademico e consulenziale. Tuttavia, è centrale sottolineare come egli debba porsi come una figura in grado di scegliere le tecniche e gli strumenti opportuni in ragione del contesto nel quale si trova a operare piuttosto che come promoter di uno specifico strumento.

Alessandro Braida

[1] Cozzi T., Zamagni S. (2004), Principi di economia politica, Il Mulino, Bologna – pag17

[2] https://www.cepas.it

[3] L’International Integrated Reporting Council (IIRC) è un ente globale composto da organismi regolatori, investitori, aziende, enti normativi, professionisti operanti nel settore della contabilità e ONG. Il framework per redigere il report integrato sulla base delle indicazioni dell’IIRC è disponiile a questo link: https://integratedreporting.org/wp-content/uploads/2014/04/13-12-08-THE-INTERNATIONAL-IR-FRAMEWORK-Italian.pdf

[4] Il decreto legislativo 254/16 ha introdotto per gli enti di interesse pubblico (società emittenti titoli negoziati sui mercati regolamentati, banche, assicurazioni e altri intermediari finanziari) con più di 500 dipendenti l’obbligo di rendicontazione non finanziaria, ossia la comunicazione, a partire dall’esercizio 2017, di informazioni su sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, catena di fornitura, gestione delle diversità e gestione dei rischi.

unnamed-2Di seguito riporto le parole del Ceo di BlackRock Larry Fink citate dal Nobel  Joseph Stiglitz nell’articolo pubblicato su Business insider sotto linkato.

“Se non ha ben chiari i suoi scopi, nessuna azienda, che sia quotata in borsa o meno, può realizzare pienamente il proprio potenziale” ha scritto Fink. “Finirà per perdere l’autorizzazione a operare concessa dai suoi stakeholder fondamentali. Cederà alle pressioni orientate al breve termine perché distribuisca i propri utili, e così facendo sacrificherà gli investimenti realizzati sulla crescita dei dipendenti, sull’innovazione e sulle spese in conto capitale, investimenti necessari ai fini di una crescita a lungo termine. Rimarrà esposta alle campagne di attivisti che esprimeranno uno scopo più chiaro, anche se tale scopo promuoverà soltanto il raggiungimento degli obiettivi più circoscritti e a breve termine.”

 

https://it.businessinsider.com/il-nobel-per-leconomia-joseph-stiglitz-spiega-perche-le-idee-di-milton-friedman-hanno-contribuito-alla-crescente-disuguaglianza-negli-usa/