La recente pubblicazione della “Ricerca Nazionale sulle Società Benefit 2024” realizzata da Nativa in collaborazione con altri partner – Intesa San Paolo, Infocamere, Il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali Marco Fanno, la Camera di commercio di Brindisi e Taranto e Assobenefit, analizza la performance e l’evoluzione delle Società Benefit in Italia tra il 2019 e il 2022. La ricerca evidenzia la crescita significativa di queste aziende e il loro impatto positivo sull’economia e sulla società.

Negli ultimi anni, le Società Benefit hanno guadagnato rilevanza come modello imprenditoriale innovativo che combina la ricerca del profitto con l’impegno a generare impatti positivi sulla società e sull’ambiente. Introdotte per la prima volta negli Stati Uniti nel 2010, queste imprese hanno trovato terreno fertile in Italia, dove sono state formalmente riconosciute nel 2016. Da allora, l’adozione di questo modello nel paese è cresciuta esponenzialmente, come evidenziato nella ricerca.

Cosa sono le Società Benefit?

Le Società Benefit sono imprese che, oltre a perseguire il profitto, hanno l’obbligo legale di generare benefici sociali e ambientali. Questo impegno è formalizzato includendo tali obiettivi nel loro statuto. La legge italiana, ispirata alla legislazione statunitense, è stata pioniera in Europa nel permettere alle aziende di adottare ufficialmente questo modello, impegnandosi in pratiche di responsabilità, sostenibilità e trasparenza.

Crescita e Performance Economica

Secondo la ricerca, il numero di Società Benefit in Italia è passato da circa 400 nel 2019 a oltre 3.600 nel 2023. Questa crescita è accompagnata da una performance economica notevole. Tra il 2019 e il 2022, le Società Benefit hanno registrato un aumento medio del fatturato del 37%, rispetto al 18% delle aziende non-benefit. L’EBITDA margin (margine prima degli interessi, delle imposte, del deprezzamento e degli ammortamenti) delle Società Benefit ha superato quello delle non-benefit, passando dall’8,5% al 9%, mentre le non-benefit hanno visto un aumento dall’8,1% all’8,3%.

Inoltre, queste imprese hanno dimostrato una produttività maggiore, con un valore aggiunto per dipendente di 62.000 euro, rispetto ai 57.000 euro delle non-benefit. Questo si traduce in una maggiore capacità di remunerare i propri dipendenti, con un costo medio del lavoro per dipendente di 41.000 euro per le Società Benefit, rispetto ai 38.000 euro delle non-benefit.

Settori e Dimensioni

La ricerca ha anche evidenziato la distribuzione settoriale e dimensionale delle Società Benefit, mostrando una vasta varietà di settori e un impatto significativo sulle grandi imprese. Il modello si è rivelato versatile, essendo adottato da aziende di diverse dimensioni e settori, rafforzando l’idea che è possibile allineare redditività e sostenibilità in qualsiasi contesto imprenditoriale.

Impatto Sociale e Ambientale

Uno degli aspetti più importanti delle Società Benefit è il loro impegno verso l’impatto sociale e ambientale. Queste imprese investono significativamente nella sostenibilità, dall’adozione di pratiche ecologiche allo sviluppo di brevetti e all’internazionalizzazione. Questo crea basi solide per una performance sostenibile a lungo termine, beneficiando sia gli azionisti che la società in generale.

Prospettive per il Futuro

Le Società Benefit rappresentano un’evoluzione nel panorama imprenditoriale, combinando la tradizione imprenditoriale italiana con un approccio moderno di responsabilità sociale e ambientale. Questo modello non solo si allinea con i valori contemporanei di sostenibilità, ma offre anche una performance economica robusta.

La ricerca suggerisce che le Società Benefit hanno il potenziale per trasformare profondamente l’ambiente imprenditoriale, promuovendo un nuovo paradigma che pone il bene comune al centro delle strategie di business. Man mano che più aziende adottano questo modello, ci si aspetta che il loro impatto positivo si ampli, beneficiando una gamma ancora più ampia di stakeholder.

Per il futuro, è cruciale continuare a studiare e promuovere le Società Benefit, comprendendo meglio le loro dinamiche e incoraggiando altre imprese a seguire questo percorso. La “Ricerca Nazionale sulle Società Benefit 2024” è un passo importante in questa direzione, offrendo intuizioni preziose sulla performance e sulle pratiche di queste imprese innovative.

Fonti

https://www.societabenefit.net/gli-investitori-delle-societa-benefit/https://nativalab.com/stories/e-online-la-ricerca-nazionale-sulle-societa-benefit-2024/

La Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), introdotta con la Direttiva 2022/2464 dell’Unione Europea, impone nuove responsabilità in materia di rendicontazione della sostenibilità per molte aziende. A partire dal 2025, le imprese che soddisfano determinati criteri dovranno preparare la dichiarazione di sostenibilità riferita all’anno fiscale 2026, mentre negli anni successivi altri gruppi di aziende saranno progressivamente coinvolti.

L’implementazione della CSRD avrà un impatto significativo su diverse aree aziendali, tra cui quelle della compliance, del sustainability management, della finanza, dei sistemi informativi (IT), delle risorse umane (HR). Le imprese dovranno raccogliere e gestire grandi volumi di dati ESG (ambientali, sociali e di governance) e garantire la coerenza e l’integrità delle informazioni rendicontate.

In questo contesto, il modello di John Kotter sulla gestione del cambiamento potrebbe offrire un framework efficace per supportare le imprese nella complessa transizione. Gli otto step proposti da Kotter aiutano a strutturare il cambiamento organizzativo in modo graduale, coinvolgendo tutte le funzioni critiche e superando le resistenze interne. Vediamo come ogni fase del modello potrebbe essere applicata al processo di implementazione della CSRD.

1. Creare un senso di urgenza

Il primo passo nel modello di Kotter è creare un senso di urgenza rispetto alla necessità di cambiamento. Nel contesto della CSRD, è essenziale che i leader aziendali comprendano l’importanza di agire rapidamente per adeguarsi ai nuovi requisiti normativi. Questo senso di urgenza può essere alimentato evidenziando i rischi del mancato rispetto della direttiva: sanzioni economichedanni reputazionali, perdita di fiducia da parte degli investitori e parti interessate, oltre a potenziali esclusioni da mercati sensibili ai criteri ESG.

È utile sottolineare anche i vantaggi competitivi derivanti dall’adesione alla CSRD. Le aziende che integrano la sostenibilità nei propri processi possono trarre benefici in termini di immagine, attrazione di investitori responsabili e accesso a nuovi mercati. In questa fase, creare consapevolezza non solo sulle penalità, ma anche sulle opportunità, motiva i decision maker aziendali a supportare il cambiamento.

2. Formare una coalizione di leadership

Il secondo passo del modello di Kotter prevede la formazione di una coalizione di leadership coesa per guidare il cambiamento. L’implementazione della CSRD richiede un impegno trasversale che coinvolga vari dipartimenti aziendali. Per una transizione efficace, è essenziale creare un team di leader che coinvolga e coordini i responsabili di aree fondamentali come compliancefinanzaITsustainability managementrisorse umane (HR) e altre funzioni chiave come marketing e operations. Un team di leader con diverse competenze e prospettive aiuterà a gestire la complessità del cambiamento in modo olistico, assicurando che tutti gli aspetti della conformità siano trattati con attenzione.

3. Sviluppare una visione e una strategia

Una volta formata la coalizione di leadership, è necessario sviluppare una visione chiara e una strategia efficace per guidare l’implementazione della CSRD. La visione deve delineare il risultato finale: un’azienda che rispetti pienamente i requisiti di rendicontazione della sostenibilità, integrando le pratiche ESG (ambientali, sociali e di governance) nelle sue operazioni.

La strategia dovrebbe includere azioni concrete, come la creazione di una timeline per rispettare le scadenze normative, la definizione di obiettivi intermedi e l’allocazione delle risorse necessarie, tra cui collaboratori interni, consulenti esterni e software per la gestione dei dati ESG.

Una visione ben comunicata e una strategia chiara orientano l’organizzazione verso il cambiamento. La visione deve essere stimolante, ma anche realistica, mentre la strategia deve fornire un percorso chiaro per passare dalla situazione attuale alla piena conformità alla CSRD.

4. Comunicare la visione del cambiamento

Il quarto step del modello di Kotter sottolinea l’importanza di comunicare costantemente la visione del cambiamento. La conformità alla CSRD non è solo un compito amministrativo, ma richiede il coinvolgimento di tutta l’organizzazione. È essenziale che in azienda, a tutti i livelli, si comprenda l’importanza della sostenibilità e l’impatto della CSRD sul lavoro quotidiano.

La comunicazione deve essere chiara, coerente e continua. Utilizzare diversi canali di comunicazione come intranet aziendaliriunioni periodicheworkshop e sessioni di formazione aiuta a mantenere alta la consapevolezza e rispondere a domande o preoccupazioni. È importante che la coalizione di leadership ripeta costantemente la visione, spiegando non solo cosa sta cambiando, ma perché è necessario e come ogni persona può contribuire al successo.

5. Rimuovere gli ostacoli

Il quinto passo del modello di Kotter riguarda l’identificazione e la rimozione degli ostacoli che possono ostacolare il cambiamento. Per la CSRD, questi ostacoli possono includere resistenze al cambiamento, mancanza di competenze tecniche sulla sostenibilità o l’assenza di sistemi informatici adeguati per la gestione dei dati ESG.

Sarà quindi necessario investire in formazione, dotarsi di strumenti tecnologici più avanzati e, se opportuno, coinvolgere esperti esterni. È anche importante risolvere eventuali problemi organizzativi che possano bloccare la condivisione delle informazioni o la collaborazione tra reparti.

Rimuovere questi ostacoli consentirà all’azienda di avanzare senza intoppi verso la conformità, evitando rallentamenti o blocchi nel processo.

6. Creare successi a breve termine

Per mantenere alta la motivazione durante l’implementazione della CSRD, è fondamentale creare successi a breve termine. Piccoli traguardi dimostrano che il progetto sta andando nella giusta direzione.

Nel contesto della CSRD, questi traguardi possono includere la prima raccolta di dati o la redazione di un primo rapporto preliminare di sostenibilità. Questi risultati devono essere condivisi e celebrati all’interno dell’azienda, per dimostrare che il cambiamento è realizzabile e per mantenere alto l’entusiasmo.

7. Consolidare i successi e produrre ulteriori cambiamenti

Dopo i primi successi, è importante non rallentare il ritmo. Il settimo passo del modello di Kotter invita a consolidare i risultati ottenuti e a utilizzarli come base per introdurre ulteriori cambiamenti. L’implementazione della CSRD è un processo continuo, che richiede aggiustamenti e miglioramenti costanti. Una volta raggiunti i primi obiettivi, è fondamentale effettuare revisioni periodiche dei progressi e apportare correzioni, se necessario. La coalizione di leadership deve rimanere attiva e vigilare sul continuo allineamento dell’organizzazione agli obiettivi della CSRD.

8. Incorporare i cambiamenti nella cultura aziendale

L’ultimo step del modello di Kotter è istituzionalizzare i cambiamenti, integrandoli nella cultura aziendale. Questo garantirà che la conformità alla CSRD non sia solo un obbligo temporaneo, ma diventi parte integrante del modo di operare dell’azienda nel lungo termine.

Le pratiche di sostenibilità devono essere incluse nei valori aziendali, nei processi decisionali e negli obiettivi strategici. Ciò può includere lo sviluppo di politiche interne per promuovere comportamenti sostenibili e incentivi per chi raggiunge obiettivi ESG. In questo modo, la conformità alla CSRD diventerà parte del DNA dell’azienda, assicurando un impegno costante.

In sintesi, la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) rappresenta una sfida, ma anche un’opportunità per le aziende. L’applicazione del modello di John Kotter può aiutare le imprese a strutturare un cambiamento efficace, dalla creazione di un senso di urgenza fino all’istituzionalizzazione dei cambiamenti. Seguendo gli otto step di Kotter, le aziende potrebbero non solo soddisfare i requisiti normativi, ma anche creare una base solida per una crescita sostenibile e allineata alle aspettative del mercato e degli stakeholder.

 GLI 8 STEP DI J. KOTTER PER LA CSRD
STEPDESCRIZIONE
1. Creare un senso di urgenzaSensibilizzare l’azienda sui rischi e vantaggi legati alla CSRD.
2. Formare una coalizione di leadershipCostituire un team con responsabili chiave per guidare il cambiamento.
3. Sviluppare una visione e una strategiaDefinire una visione chiara e pianificare le azioni necessarie.
4. Comunicare la visione del cambiamentoComunicare in modo continuo e chiaro per coinvolgere tutto il personale.
5. Rimuovere gli ostacoliIdentificare e rimuovere gli ostacoli che rallentano il processo.
6. Creare successi a breve termineRaggiungere piccoli traguardi per mantenere alta la motivazione.
7. Consolidare i successi e produrre ulteriori cambiamentiConsolidare i successi ottenuti e spingere ulteriori cambiamenti.
8. Incorporare i cambiamenti nella cultura aziendaleIntegrare la sostenibilità nella cultura e nelle politiche aziendali.

In un ambiente aziendale dinamico come quello odierno, gestire efficacemente i cambiamenti è essenziale. John Kotter, professore della Harvard Business School, ha sviluppato un modello in otto fasi per aiutare i leader a gestire con successo i cambiamenti. 

Esploriamo come e quando applicarlo.

            1.         Creare un senso di urgenza

Il primo passo è creare un senso di urgenza riguardo alla necessità di cambiamento, evidenziando i rischi del non agire. Questo mobilita i dipendenti a uscire dallo status quo.

            2.         Formare una coalizione potente

Un team influente e coinvolto deve guidare il cambiamento, comunicando e sostenendo la nuova direzione.

            3.         Sviluppare una visione strategica

La visione deve essere chiara, ispirata e allineata con gli obiettivi dell’organizzazione, supportata da strategie concrete.

            4.         Comunicare la visione

La comunicazione deve essere continua, utilizzando diversi canali per garantire che tutti comprendano e si allineino alla nuova visione.

            5.         Rimuovere gli ostacoli

Identificare ed eliminare le barriere che potrebbero ostacolare il progresso, come processi obsoleti o mancanza di risorse.

            6.         Generare vittorie a breve termine

Celebrare i piccoli successi lungo il percorso aumenta il morale e dimostra che il cambiamento sta funzionando.

            7.         Consolidare i cambiamenti e produrre altre trasformazioni

Continuare ad ampliare i cambiamenti dopo le prime vittorie, evitando di dichiarare il successo troppo presto.

            8.         Incorporare il cambiamento nella cultura organizzativa

Affinché il cambiamento sia duraturo, deve essere integrato nei valori e nei comportamenti dell’organizzazione.

Quando utilizzare il modello di Kotter

Il modello di Kotter è particolarmente efficace in situazioni di cambiamento strutturale e profondo, che coinvolgono più aree dell’organizzazione e richiedono un processo graduale e ben gestito. È utile quando l’organizzazione si aspetta una resistenza al cambiamento e ha bisogno di un approccio sistematico per superarla. Studi suggeriscono che il modello funziona meglio in contesti in cui è necessario un cambiamento culturale e organizzativo ampio, in particolare in ambienti più grandi e complessi (Kotter, 1996).

Quando evitare il modello di Kotter

Questo modello potrebbe non essere adatto in contesti dove i cambiamenti devono essere rapidi e meno strutturati, o in piccole organizzazioni con gerarchie meno definite, dove la resistenza al cambiamento è minima e la rapidità è prioritaria. In questi casi, approcci più agili e meno formali potrebbero essere più indicati (Kotter, 1996).

Un caso di studio: Beth Israel Deaconess Medical Center

Un esempio concreto dell’applicazione del modello di Kotter si trova nel Beth Israel Deaconess Medical Center (BIDMC), un ospedale di Boston che alla fine degli anni ’90 affrontava una grave crisi finanziaria. Il CEO Paul Levy ha utilizzato diverse fasi del modello per guidare la trasformazione.

Levy ha inizialmente creato un senso di urgenza comunicando chiaramente ai dipendenti la crisi finanziaria dell’ospedale. Ha formato una coalizione di leader influenti per sostenere la visione di recupero, basata sull’efficienza e sulla riduzione dei costi, senza compromettere la qualità del servizio. Attraverso una comunicazione continua e trasparente, Levy ha coinvolto i dipendenti e ha dato loro il potere di agire.

Celebrando le vittorie iniziali, come il miglioramento dell’efficienza, Levy ha consolidato i progressi e ha continuato a implementare cambiamenti. Infine, queste nuove pratiche sono state integrate nella cultura organizzativa, garantendo la sostenibilità del cambiamento a lungo termine.

Conclusione

Il modello di Kotter rappresenta un approccio strutturato e dettagliato per gestire il cambiamento all’interno delle organizzazioni, soprattutto quando si affrontano trasformazioni complesse e di lungo termine. Attraverso l’implementazione delle sue otto fasi, le aziende possono non solo superare le resistenze, ma anche creare una cultura di miglioramento continuo. Come dimostrato dal caso del Beth Israel Deaconess Medical Center, seguire questo modello ha permesso di affrontare con successo una crisi finanziaria, consolidando cambiamenti profondi e sostenibili. Pertanto, il modello di Kotter si rivela uno strumento prezioso per i leader che desiderano guidare le proprie organizzazioni verso il successo in tempi di sfide significative.

Fonti

Kotter, John P. – Dan S. Cohen – Al cuore del cambiamento. Come le persone cambiano le organizzazioni. ETAS Management (2003)

Kotter, John P. (1996). Leading Change. Harvard Business Review Press.

Kotter, J.P., & Cohen, D.S. (2002). The Heart of Change: Real-Life Stories of How People Change Their Organizations. Harvard Business Review Press.

Il Social Return On Investment (SROI) è un metodo avanzato per valutare l’impatto sociale delle organizzazioni, dei progetti o dei programmi[1]. Questa metodologia non solo misura, ma anche quantifica in termini monetari i benefici sociali, ambientali ed economici, offrendo una visione completa dell’impatto di un’iniziativa. Calcolare lo SROI permette alle organizzazioni di dimostrare come ogni euro investito possa tradursi in un significativo valore sociale. Riconosciuta come una delle metodologie più efficaci, lo SROI è supportato e promosso da importanti entità globali come:

  • Social Value International (https://www.socialvalueint.org/): un’organizzazione che definisce lo SROI come uno standard internazionale per la misurazione del valore sociale, fornendo linee guida, certificazioni e supporto alle organizzazioni interessate.
  • Social Value UK (https://socialvalueuk.org/): il capitolo britannico che svolge un ruolo essenziale nella promozione e nello sviluppo dello SROI nel Regno Unito.  
  • Social Value Italia (https://www.socialvalueitalia.it): il capitolo italiano che promuove la cultura del valore sociale e l’adozione della metodologia SROI nel contesto italiano

Perché lo SROI è Importante?

L’implementazione dello SROI porta vantaggi fondamentali per le organizzazioni, risultando indispensabile per una gestione attenta e responsabile grazie a:

  1. Trasparenza e responsabilità: Lo SROI fornisce un metodo quantificabile per dimostrare l’impatto sociale di un’organizzazione. Questo incrementa la trasparenza, migliorando la fiducia tra investitori, finanziatori e altre parti interessate, e rafforzando la reputazione pubblica dell’organizzazione.
  2. Miglioramento delle decisioni: Lo SROI può essere applicato sia ex-ante che ex-post rispetto all’implementazione di un progetto. Questo significa che non solo permette di valutare l’efficacia di iniziative passate, ma può anche guidare la pianificazione e l’ottimizzazione delle risorse per future attività. L’uso dello SROI in queste fasi contribuisce significativamente a migliorare la cultura manageriale dell’organizzazione, permettendo decisioni più informate basate su dati concreti.
  3. Attrazione di investimenti: In un contesto dove gli investitori sono sempre più attenti agli impatti sociali e ambientali, oltre che economici, un alto valore dello SROI dimostra l’efficacia di un investimento. Questo può aiutare ad attrarre maggiori capitali e supporto.
  4. Coinvolgimento degli stakeholder: Adottare un processo di misurazione dello SROI che includa attivamente gli stakeholder migliora il loro coinvolgimento e la cooperazione. Questo non solo rende le iniziative più efficaci, ma favorisce anche un impatto sociale più ampio e sostenibile.

Come si sviluppa lo SROI e come si utilizza questa metodologia?

Il processo di calcolo dello SROI si articola in diverse fasi chiave, ognuna fondamentale per garantire un’analisi accurata e completa. Al termine, viene redatta una relazione dettagliata che espone metodicamente i passaggi seguiti e illustra il percorso logico che ha portato alla determinazione del valore finale.

  1. Definizione di obiettivi e ambito: Il primo passo fondamentale è chiarire gli obiettivi dello SROI e definire l’ambito dell’analisi. Questo include la scelta delle attività da valutare e la determinazione del periodo di tempo considerato.
  2. Identificazione degli stakeholder: È essenziale identificare tutte le parti interessate influenzate dalle attività dell’organizzazione. Questo aiuta a comprendere chi beneficia del progetto e in che modo.
  3. Mappatura dei risultati: Successivamente, si determinano i risultati attesi dalle attività e come questi impattano gli stakeholder. Questa fase è cruciale per collegare le azioni dell’organizzazione agli effetti specifici che produce.
  4. Misurazione dei risultati e assegnazione di valori: In questa fase, si raccolgono dati sui risultati effettivi e si assegnano valori monetari a questi impatti. Questo può richiedere l’uso di dati sia primari che secondari, a seconda della disponibilità e della rilevanza.
  5. Calcolo dello SROI: La formula per calcolare lo SROI è la seguente: SROI=Valore Totale dei Benefici/Investimento. Questa equazione aiuta a esprimere in termini monetari il valore aggiunto creato per ogni euro investito.
  6. Relazionare e Utilizzare i Risultati: L’ultimo passo è comunicare i risultati dello SROI in modo trasparente e utilizzarli per migliorare le decisioni future e l’allocazione delle risorse all’interno dell’organizzazione.

Chi può utilizzare lo SROI?

Lo SROI è uno strumento versatile che trova applicazione in una varietà di contesti organizzativi, dimostrandosi utile per molteplici entità:

  • ONG e Organizzazioni Non Profit: Per queste organizzazioni, lo SROI è particolarmente prezioso per dimostrare l’efficacia dei loro programmi sociali. Può aiutare a garantire trasparenza e a rafforzare la fiducia con donatori e finanziatori, attrarre più risorse e migliorare la strategia di impatto.
  • Aziende Private: Le aziende che si impegnano nella responsabilità sociale d’impresa possono utilizzare lo SROI per misurare e comunicare l’effetto delle loro iniziative sostenibili. Questo non solo migliora la loro immagine pubblica, ma può anche favorire l’engagement dei consumatori e la lealtà del brand.
  • Governi e Politiche Pubbliche: Lo SROI permette ai decisori pubblici di valutare l’efficacia delle politiche e dei programmi, migliorando l’allocazione delle risorse e massimizzando l’impatto delle iniziative pubbliche. È uno strumento chiave per assicurare che gli investimenti pubblici generino il massimo beneficio sociale possibile.

I punti di forza della tecnica e i punti di debolezza

Per comprendere appieno l’efficacia e le sfide della tecnica SROI (Social Return on Investment), è importante esaminare i suoi principali punti di forza e di debolezza. Questa sezione mette in luce i vantaggi e le limitazioni che emergono dall’applicazione pratica di questo metodo, offrendo una panoramica equilibrata delle sue capacità e dei suoi limiti.

Punti di Forza:

  • Robustezza del Metodo di Calcolo: Il metodo presenta una struttura solida e ben definita per valutare gli impatti delle attività, garantendo risultati affidabili.
  • Presenza della Teoria del Cambiamento: Integra la Teoria del Cambiamento, uno strumento utile per definire e comprendere gli impatti delle attività attraverso un quadro teorico chiaro e ben strutturato.
  • Controfattualità: Considera scenari alternativi attraverso la controfattualità, cioè l’analisi di situazioni ipotetiche in cui l’organizzazione non avesse realizzato l’attività, migliorando l’accuratezza delle valutazioni.

Punti di Debolezza:

  • Richiede Capacità di Analisi Avanzate: È necessaria una notevole capacità analitica e una visione strategica per identificare la catena di causazione input-output-outcome-impatto, le ipotesi di base dell’analisi e le proxy finanziarie.
  • Complessità delle Elaborazioni: Le elaborazioni richieste dal metodo sono complesse e possono richiedere competenze avanzate e risorse significative.
  • Sensibilità alle Ipotesi: L’analisi di sensibilità può rivelare ampie variazioni a seconda delle ipotesi adottate, rendendo la robustezza dei risultati dipendente dalle scelte iniziali.

Dove posso approfondire questa metodologia?

Per chi desidera approfondire la metodologia del Social Return on Investment (SROI), esistono diverse risorse preziose. Una guida completa, scritta da Judy Clegg e Julie L. Weitzman, è disponibile sul sito del Regno Unito (https://socialvalueuk.org) e offre non solo una panoramica dettagliata della metodologia, ma anche una serie di link utili che introducono a strumenti Excel, manuali e ulteriori approfondimenti.

Inoltre, un’interessante introduzione al SROI è fornita nel libro *Linee Guida per la Valutazione d’Impatto delle Società Benefit e la Rendicontazione Sociale*, che può essere acquistato tramite il seguente link (https://shop.wki.it/ebook/ebook-linee-guida-per-la-valutazione-d-impatto-delle-societa-benefit-e-la-rendicontazione-sociale-s754633/?utm_source=estpdf). Questo libro rappresenta una risorsa di interesse per comprendere le basi del SROI e le sue applicazioni pratiche.

Qualche esempio

Come visto anteriormente, il Social Return on Investment (SROI) è una metodologia utilizzata per comprendere e quantificare il valore sociale generato dalle attività di un’organizzazione. Di seguito sono riportati due esempi significativi di valutazioni SROI, che illustrano come questa metodologia possa essere applicata per misurare l’impatto sociale ed economico di diversi interventi.

Fair Start Scotland

•Cosa valuta: Il programma Fair Start Scotland mira a supportare persone lontane dal mercato del lavoro, aiutandole a trovare e mantenere un’occupazione. L’analisi SROI ha valutato l’impatto economico e sociale del programma, considerando vari indicatori di successo e benefici per i partecipanti.

•Link: https://socialvalueuk.org/wp-content/uploads/2023/05/Routes-to-Impact-–-Understanding-the-social-value-of-employability-and-skills-interventions-in-the-Third-Sector.pdf

iGA Beekeeping Project

•Cosa valuta: Il progetto di apicoltura di iGA mira a incrementare la resilienza dell’ecosistema supportando le popolazioni di api, cruciali per la resistenza climatica, e a fornire benefici socio-economici alla comunità locale. L’analisi SROI valuta i cambiamenti apportati dal progetto nelle comunità vicine all’aeroporto di Istanbul, misurando il valore sociale ed economico generato attraverso la formazione e il supporto agli apicoltori locali.

•Link: https://socialvalueuk.org/wp-content/uploads/2023/12/iGA_Beekeeping-Project-SROI-Analysis_final.pdf


[1] La metodologia per calcolare il ritorno sociale sugli investimenti (SROI) nel contesto dell’impresa sociale è stata documentata dal Roberts Enterprise Development Fund (REDF). Inizialmente sviluppata nel 1996, il lavoro fondamentale è stato ulteriormente elaborato nel 2000 attraverso varie pubblicazioni di REDF, che hanno posto le basi per il quadro di SROI. In particolare, la pubblicazione “Social return on investment: exploring aspects of value creations in the non-profit sector” di Emerson, Wachowicz e Chun del 2000 è una fonte notevole che documenta questa metodologia (file-service://file-tVqqM6925xFBB3gz9P9TwD0D).

ARCOM – Associazione Regionale dei Consulenti di Management del Friuli Venezia Giulia – nasce nel 2021 con lo scopo di aggregare consulenti e professionisti esperti in materia di management in una ideale “Casa comune” nella quale poter condividere, acquisire, accrescere conoscenze ed esperienze, trasversali e complementari. L’Associazione agisce conl’intento di divulgare cultura manageriale, non solo nelle imprese, ma anche nella Pubblica Amministrazione e nel terzo settore.

L’attività associazionistica stimola gli associati a fornire il proprio apporto alla crescita culturale e intellettuale del network attraverso una continua interazione durante incontri, seminari, workshop, occasioni di studio che si svolgono in modalità online o in presenza.

ARCOM ha predisposto un manifesto che espone il suo pensiero circa l’utilità della consulenza d’impresa per le realtà della nostra regione. Alleghiamo il documento per vostra lettura ed eventuale commento.

Scarica il manifesto

Con i criteri ESG (Environmental, Social and Governance) è possibile misurare l’impegno di un’azienda nel limitare i propri impatti negativi verso il pianeta e le persone attraverso un adeguato modello di governance. L’acronimo “ESG”, coniato per la prima volta quasi vent’anni fa[1], nel periodo successivo all’esplosione del COVID-19 si è diffuso largamente anche nell’ambiente delle imprese di piccole e medie dimensioni. La crescita della notorietà del termine e quindi dei criteri connessi, registrata anche da Google Trends, è certamente correlata con l’aumento dell’interesse della finanza per gli investimenti “sostenibili” oltre che con le importanti evoluzioni sul piano normativo, fra le quali la recente approvazione della Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD)[2]. Tale provvedimento, considerato da alcuni autori come un autentico “tsunami normativo”, allarga la platea delle imprese soggette ad obbligo di pubblicazione del report di sostenibilità. Nei fatti molte aziende si stanno, già da tempo, strategicamente indirizzando verso proposte di prodotti e servizi sostenibili o perlomeno responsabili nel confronto dell’ambiente e delle persone. Alcune di esse stanno sostenendo anche importanti investimenti nell’adeguamento della struttura organizzativa chiamata a raggiungere nel tempo obiettivi misurabili con indicatori ESG che possono a loro volta essere rendicontati con strumenti di comunicazione, come ad esempio il report di sostenibilità redatto con i GRI Standard.

Le PMI sono disorientate

Negli ultimi mesi molte PMI si trovano di fronte ad una situazione nella quale ricevono richieste, destinate a crescere, di maggiori informazioni relative ad aspetti ESG; questo sia all’interno delle filiere in cui sono collocate, sia da parte degli intermediari finanziari. Da considerare anche professionisti e società di consulenza che propongono software per realizzare rating ESG, diverse tipologie di certificazioni per la sostenibilità ambientale e sociale, linee guida per la responsabilità sociale, percorsi per diventare Società Benefit, servizi per la redazione del Report di Sostenibilità, ecc. Le PMI si trovano dunque, di fronte a un quadro complesso in cui strumenti, metodi, approcci si confondono fra loro e dove spesso non è nemmeno chiaro come relazionarli con il modello di business di un’azienda.

Investire nella sostenibilità ambientale e sociale può essere profittevole?

Proviamo a fare un po’ di ordine cercando di analizzare la situazione con un po’ di razionalità. In primo luogo, è opportuno farsi una domanda: esiste una solida base scientifica e documentale che prova la correlazione fra le performance economico-finanziarie di un’azienda e le sue scelte strategiche verso la sostenibilità sociale e ambientale? In realtà, non è così facile dare una risposta al quesito perché diversi studi scientifici portano a conclusioni, talvolta, controverse[3]. Tra l’altro, anche se molte imprese multinazionali si dichiarano impegnate sul fronte del climate change, importanti rapporti come quelli recentemente pubblicati dal New Climate Institute e dal Carbon Market Watch registrano che le strategie adottate – entro un panel di 24 multinazionali – sono “del tutto insufficienti”[4]

Tuttavia, almeno che non si voglia dare credito alle teorie che intendono smentire l’esistenza del dell’Antropocene, esistono alcuni fatti che non è possibile non considerare. Per prima cosa, le imprese generano impatti (causano effetti) sull’ambiente e sulla società e devono contribuire a gestirne le conseguenze per evitare di essere travolte dalla mancanza di una loro giustificazione sociale. In secondo luogo, anche se non è chiaro come una miglior performance finanziaria possa essere riconducibile a delle scelte strategiche incentrate sui piani ESG, esistono importanti correlazioni fra il miglioramento delle performance sociali e ambientali e la crescita della profittabilità delle aziende. Ciò anche per il fatto che, secondo alcuni studi[5], i consumatori sembrano premiare le aziende responsabili dal punto di vista ambientale e sociale. 

Da dove iniziare per orientare l’Azienda verso un’organizzazione più sostenibile?

Cosa deve fare una PMI che vuole iniziare o gestire al meglio un suo percorso verso la sostenibilità evitando di realizzare iniziative o progetti non ben coordinati con il suo core business? Essa deve attuare un processo articolato con obiettivi, progetti, azioni, responsabilità, budget di spesa, indicatori di prestazione ESG, rendicontazione e comunicazione. Non si tratta certo di un’attività episodica che si esaurisce con un mero output di indicatori quantitativi. In questo percorso, inoltre, è fondamentale l’attività di stakeholder engagement per confrontarsi in maniera sistematica con i portatori di interesse interni ed esterni. 

Trattasi, pertanto, di costruire un piano coordinato con l’intero asset delle attività che l’azienda quotidianamente realizza e occorre, inevitabilmente, considerare e inserire le azioni in ambito ESG all’interno delle priorità legate al core business aziendale per gestirle correttamente nel tempo. 


[1] https://www.ilsole24ore.com/art/gifford-l-inventore-sigla-esg-volevo-aiutare-fondi-pensione-investire-AEtbXa8

[2] https://www.fondazioneoibr.it/2022/11/29/testo-definitivo-della-csrd-corporate-sustainability-reporting-directive/

[3] Per un approfondimento si suggerisce la lettura di G. C. Landi – Sostenibilità e rischi di impresa – cap.3, Wolters Kluver, CEDAM

[4] https://24plus.ilsole24ore.com/art/greenwashing-fuori-rotta-promesse-multinazionali-climate-change-AE3DYjmC

[5] https://www.mckinsey.com/industries/paper-forest-products-and-packaging/our-insights/sustainability-in-packaging-inside-the-minds-of-us-consumers

Come consulente di management da diverso tempo mi occupo di reti di impresa. In particolare, me ne occupo in ambito turistico e più precisamente in quelle zone denominate “aree interne”, ovvero “aree significativamente distanti dai centri di offerta di servizi essenziali (di istruzione, salute e mobilità), ricche di importanti risorse ambientali e culturali e fortemente diversificate per natura e a seguito di secolari, processi di antropizzazione[1]. Questa esperienza mi consente di tracciare un breve approfondimento relativamente ad alcuni aspetti che hanno a che fare con le dinamiche che si sviluppano nei network fra imprese.

In qualità di consulente della rete denominata “Le Donne della Benecija”[2], ho recentemente partecipato a un percorso formativo organizzato da Slow Food Italia per operatori delle Valli del Natisone. Il progetto si è sviluppato attraverso due giorni di attività, svolte sia in aula sia con esperienze dedicate a conoscere aziende agricole ed enogastronomiche della zona. Fra le attività d’aula gli animatori di Slow Food hanno condotto un focus sull’analisi, la validazione e la definizione dell’offerta che compone la destinazione (delle Valli del Torre e del Natisone). L’esperienza si è svolta, in un ambiente piacevolmente riscaldato dal caminetto, presso l’agriturismo Zaro di Farcadizze (UD) [3] e ha coinvolto circa 40 operatori del settore. Lavorando su alcuni ipotetici clienti target sono stati individuati i punti di forza e di debolezza dell’attuale proposta turistica ed enogastronomica che contraddistingue queste valli. Uno degli aspetti emersi dal dibattito con i partecipanti è certamente quello della necessità, condivisa da molti operatori, di aumentare il livello di conoscenza reciproca. Un aspetto, questo, che spesso si sottovaluta o addirittura si tralascia nelle fasi che contraddistinguono i percorsi creati per far nascere delle reti di imprese o altri tipi di network.  Una conoscenza approfondita fra imprenditori richiede tempo, ma è una condizione imprescindibile per sviluppare quel rapporto fiduciario alla base della crescita dei network fra soggetti che perseguono le loro finalità in maniera separata e diversa dagli altri. 

Il sociologo Baumann nella sua pubblicazione “Amore liquido”[4] ha evidenziato come impegnarsi in relazioni stabili sia diventato difficile in assenza dell’impegno e dello spirito di sacrificio necessario. Tuttavia, le reti fra attori economici possono durare nel tempo nella misura in cui le relazioni fra i soggetti che ne fanno parte riescono a consolidarsi attorno a un progetto condiviso capace di produrre vantaggi (non solo i termini di maggiore competitività) per tutti. 

Mentre le aziende di dimensioni medie o grandi possono disporre di certificazioni rilasciate da enti esterni – che possono in qualche maniera ridurre il rischio insito nelle relazioni di business – e possono contare su strutture organizzative dotate di maggiore capacità manageriale nel gestire trattative commerciali, nel costruire una rete, le imprese di piccole o micro dimensioni devono necessariamente affrontare un percorso di conoscenza e condivisione destinato a creare ed accrescere la loro fiducia reciproca. Conoscere chi sono i partner con cui collaborare, cosa producono, dove producono, come e con chi lo fanno, come prendono le decisioni, qual è la loro visione d’impresa, il loro modello di business e quali sono i problemi che affrontano è un passaggio inevitabile. Il fatto che spesso si scopre che anche imprese insediate nei medesimi territori non si conoscono a sufficienza è significativo di come sia presente una frammentazione nelle relazioni inter-organizzative. In qualche modo, questo limite deve trovare soluzioni.

L’elemento fiduciario è un concetto complesso e studiato da tempo da innumerevoli autori sotto diverse angolature: psicologiche, antropologiche, sociologiche, economiche ecc. Molteplici, inoltre, sono le definizioni del concetto di fiducia che si trovano in letteratura[5]. Molte fra queste indicano che quando si ripone fiducia in una controparte c’è sempre un rischio che deve essere necessariamente assunto; ciò vale sia nei rapporti diadici sia in quelli fra organizzazioni. Le caratteristiche delle controparti con cui si sviluppano le relazioni non sono sempre chiare e svelarle completamente non è nemmeno possibile. Sul piano manageriale, è dunque importante indagare sull’esistenza di tecniche e strumenti capaci di aiutare la complessa gestione delle relazioni fiduciarie. 

S. Castaldo, in un contributo di qualche anno fa dove delineava i tratti del “trust management”, evidenziava alcune linee guida sul piano della gestione degli aspetti legati alla fiducia[6]. L’autore poneva l’accento sull’analisi e sulla misurazione della fiducia oltre che sui legami con le variabili ad essa collegate e sulle politiche per il suo accrescimento. Tenendo in considerazione i ragionamenti di questo autore e parametrandoli alla mia esperienza nella costruzione e nella gestione delle reti di impresa (o di professionisti), va detto che sul piano dell’analisi e della misurazione della forza dei legami fra possibili partner di un network insistono elementi fondamentali e relativi alla qualità delle relazioni. Le relazioni fra le parti, anche se preesistenti, devono essere consolidate con attività che richiedono tempo e costanza. Un lavoro per il quale, facilitatori e consulenti capaci di coinvolgere le parti in percorsi motivanti di condivisione della conoscenza e di co-progettualità hanno una valenza particolarmente significativa. Essi, infatti, possono disporre delle competenze per utilizzare proficuamente metodi e strumenti come i circoli di studio, le comunità di pratiche o anche tecniche come il design thinking che consentono di far lavorare le persone alla costruzione condivisa di un progetto facendo emergere convergenze caratteriali, personali, strategiche e operative oltre che competenze specifiche. 

I rapporti fra le parti, tuttavia, cambiano nel tempo. E anche dopo percorsi condivisi che possono aver prodotto dei buoni risultati o addirittura condotto alla nascita di una rete formalizzata, le parti coinvolte in un progetto aggregativo, oltre che presentare cambiamenti sul piano personale e umano, possono presentare nuovi obiettivi, evoluzioni nella struttura organizzativa della loro impresa, nelle persone di loro riferimento, nei mercati target, ecc. Questi aspetti possono in più di qualche caso far degenerare i rapporti con gli altri attori di una rete. Per il buono e duraturo funzionamento di una rete d’impresa, pertanto, occorre lavorare sul mantenimento e sull’accrescimento del livello di fiducia nel tempo, continuando ad alimentarla e a monitorarla costantemente. Inoltre, sono necessari strumenti di regolamentazione dei rapporti fra le parti come accordi, contratti di rete, patti interni e occorre agire sul piano del monitoraggio delle performance della rete, del consolidamento del modello di business introducendo una valida organizzazione preposta al coordinamento della rete. 

Decisive per il successo di network sono le competenze dal punto di vista giuridico, fiscale e, soprattutto, nella conduzione dei progetti condivisi. Ancor di più, tuttavia, contano capacità nelle fasi di ascolto, di comunicazione e di mediazione fra i soggetti della rete e nella conduzione della leadership: un network, pur esaltando l’orizzontalità delle relazioni e poggiando le sue basi sull’autonomia delle parti, esige anche logiche top-down senza le quali sarebbe destinato a implodere nel tempo.

Alessandro Braida


[1] https://www.miur.gov.it/documents/20182/890263/strategia_nazionale_aree_interne.pdf/d10fc111-65c0-4acd-b253-63efae626b19

[2] www.ledonnedellabenecija.it

[3] https://agriturismozaro.it/slow-food-italia-ospiti-in-farcadizze/?cn-reloaded=1

[4] Bauman Z., Amore Liquido, 2006, edizioni La Terza

[5] Per approfondimenti si rimanda all’articolo: Rousseau D. M., Sitkin S.B., Burt R. S., Camerer C. – “Not So Different After All: A Cross-discipline View of Trust” – Academy of Management Review, Vol 23 N. 3 – 1998

[6] Si fa riferimento al contributo “Trust management” in Fiocca R., Rileggere l’impresa, 2007 – edizioni Etas

La conduzione della leadership è da sempre un punto di partenza decisivo per creare un business di successo. Durante l’emergenza da Covid-19, gli imprenditori che hanno ammesso i problemi e le difficoltà causate dalla pandemia, coinvolgendo i propri stakeholder per programmare la ripartenza, si sono dimostrati più resilienti. Nella seguente intervista, proposta da Alessandro Braida a Riccardo Cicuttin (consulente aziendale e psicologo del lavoro), emergono alcuni aspetti fondamentali nel rapporto fra aspetti emozionali e aspetti razionali che contraddistinguono una leadership efficace e lungimirante.

1 – Ad un imprenditore, lavoratore autonomo che vuole rilanciare la sua attività dopo le conseguenze del COVID-19 e delle accelerazioni in alcune tendenze (digitalizzazione, sostenibilità, etc.), la tua indicazione ancora lo scorso anno fu quella di pensare “al mondo che desideri” e di “contribuire con la tua azienda a crearlo o renderlo possibile”. Come consulente di management oltre che psicologo che opera nelle organizzazioni che competenze puoi mettere in gioco per aiutare le persone in questa direzione?

Credo che siamo mediamente disabituati a dare forma e parole ai nostri desideri più profondi, ed in fin dei conti dedichiamo loro poco tempo e poca cura. Un consulente che si impegna a promuovere e sostenere il cambiamento nella vita delle persone che scelgono di lavorare con lui, ha innanzitutto un approccio di ascolto, legittimazione e sospensione dal giudizio, ovvero le prime competenze utili a mettere le persone nelle condizioni migliori per esprimere qualcosa di intimo ed importante come un desiderio. Solo successivamente il consulente potrà agire ulteriori competenze relazionali e comunicative. Ascolto attivo, rispecchiamento emotivo, riformulazione sono alcune possibilità da agire per aiutare le persone a raffinare la loro immaginazione, ad arricchirla e a creare le basi per una successiva progettualità. È molto importante sapersi affiancare alle persone per aiutarle ad entrare in contatto pieno con le proprie risorse e i propri limiti, insomma a farle avvertire un senso di protagonismo ed autoefficacia.

Se è possibile citare alcuni modelli di intervento, che giudico pietre miliari nella letteratura della psicologia del lavoro e nel counselling professionale, non esito a nominare il costrutto di Autoefficacia di Bandura, il modello di Empowerment su cui ha lavorato Massimo Bruscaglioni, la comunicazione strategica di Watzlawick e di Giorgio Nardone, per arrivare al più recente modello del Business Model Canvas.

Senza entrare nel dettaglio, quindi, posso affermare che un consulente di management ben preparato, con consolidate competenze di tipo relazionale/psicologico, è un grande aiuto per imprenditori, gruppi di progetto e lavoratori autonomi poiché in grado di sostenere i diversi passaggi che portano dal desiderio, alla progettualità, al business plan.

2 – Negli ultimi anni sono nate e si sono diffuse numerose tecniche che aiutano a sviluppare il pensiero creativo in azienda (ad esempio il design thinking, ma anche strumenti come il business model canvas). A tuo parere, in questo particolare e straordinario momento storico ha maggiore importanza la capacità di utilizzare tecniche di questo tipo oppure è necessario far leva su forti spinte emozionali che permettono di andare oltre le paure e le barriere che ostacolano nuove visioni per il futuro?

L’applicazione del “modello” o ancor peggio della tecnica, in modo avulso dagli aspetti emotivi, è un’utopia tecnocratica che porta verso scenari sterili ed inefficaci. La ricchezza di un’idea è il suo calore emotivo. Le emozioni, i valori, i desideri, le speranze ed i bisogni sono il carburante principale del cambiamento e della crescita. Come fai a credere in qualcosa, a superare le difficoltà, le crisi, gli impegni, se non hai un sacro fuoco che arde dentro di te? 

Quindi si, non posso che confermare il ruolo primitivo e importantissimo che una spinta emotiva ha nei confronti del cambiamento, dell’innovazione e nella visione del futuro. E per dirla tutta, per superare una paura è bene prenderne consapevolezza.

Poi ovviamente il carburante non basta. Ci vuole il motore. E quindi le tecniche a cui facevi riferimento diventano necessarie, da De Bono in poi possiamo usare tutto, e quanto più saremo in grado di padroneggiare efficacemente questi strumenti, tanto più daremo forza generativa e concretezza alle motivazioni e agli stati emotivi profondi.

3 – Durante quest’ultimo anno quali sono gli stili di leadership che hai visto prevalere nelle aziende e nei professionisti tuoi clienti? E nella ripartenza rimarranno le stesse oppure cosa cambierà sotto questo aspetto?

Inizio ammettendo che il mio punto di vista sul mondo in questo anno abbondante di pandemia è decisamente parziale. Personalmente ho avuto la fortuna di lavorare con continuità e cosi ho visto fare anche ai miei partner ed alle aziende con le quali condividiamo progetti di collaborazione. Certamente si sono potute notare alcune reazioni iniziali caratterizzate da un substrato comune, l’incertezza, e dalla necessità di gestirla, sia in termini di business, che in termini affettivi.

La capacità connessa alla leadership che ho notato esprimersi con maggior efficacia è stata proprio l’accettazione di quanto stava accadendo. Per questo non intendo dire che ho visto imprenditori subire passivamente gli eventi, anzi, gli imprenditori “efficaci” hanno saputo ammettere una preoccupazione, non farne mistero quindi, ed entrare in sintonia con le preoccupazioni di collaboratori, partners e clienti, senza rimanerne sopraffatti. Ascoltarsi ed ascoltare ritorna come competenza determinante, anche in questo caso. E per molti è stato un punto di partenza per prendere decisioni in merito al “cosa fare”: si è investito il lavoro dei collaboratori verso i processi interni (riordino, riqualificazione di spazi e metodi, aggiornamento e formazione, attività di problem solving), si è dato spazio a progetti alternativi e spin-off, si sono ottimizzati rami d’azienda coerenti con le possibilità del momento, o si è lavorato per trovarsi pronti alla “ripartenza”. 

In sintesi, e a costo di dire una banalità, la leadership che ha funzionato è stata quella che non ha messo la testa sotto la sabbia, ma allo stesso tempo ha mantenuto la lucidità anche di fronte ad una situazione cosi improvvisa e pervasiva, inducendo anche le persone vicine a gestire il lavoro e la vita con cautela e lungimiranza. Come lo ha fatto? Trasmettendo l’idea che il tempo non era sospeso, che il lavoro non era finito, facendo risuonare comunque l’importanza dell’impegno quotidiano anche attraverso forme inedite di lavoro (lavoro da casa, orari svincolati, flessibilità, etc…).

4 – Le leadership partecipative basate sull’empatia, sulla capacità di coinvolgere e motivare i collaboratori sono ormai quotidianamente al centro di articoli, webinar, corsi di formazione oltre che di centinaia di post su linkedin e facebook. Tuttavia, nelle organizzazioni spesso noi consulenti vediamo prevalere ancora leadership basate sull’autorità e la gerarchia. Come si può migliorare da questo punto di vista? Noi consulenti che ruolo possiamo avere?

La crescita basata solamente su autorità e gerarchia è una crescita fragile e limitata. Il coinvolgimento trasparente e chiaro rappresenta sempre il miglior patto psicologico che può essere applicato in una organizzazione aziendale.

Posso proporre una distinzione tra Autorità e Autorevolezza, che magari ci aiuta a osservare in modo diverso i comportamenti nostri e degli altri. Mentre l’Autorità agisce per se stessa, per il mantenimento di uno stato “congelato”, l’Autorevolezza agisce per il bene di altri, mettendo a disposizione esperienza, competenza e prospettiva. L’Autorità ti dice come devi fare quella cosa, l’Autorevolezza ti mette nelle condizioni di trovare un senso al tuo lavoro e di realizzarlo al meglio, realizzando anche te stesso.

Oggi chiunque sia un leader in azienda può pensare di avere l’obbligo deontologico di aiutare i collaboratori a scoprire ed incarnare il “perché” si compiono scelte, si attuano comportamenti e si determinano modi operativi.

Poi non dobbiamo mica buttare via il bambino con l’acqua sporca, gerarchia e struttura nelle organizzazioni hanno un senso funzionale indiscutibile; diventano autoritarie e cieche nel momento in cui impediscono i cambiamenti necessari.

Economia, società e politica: tutto si muove e non sempre in senso progressivo (le epidemie e i disastri naturali confermano). Come ricordava Z.Bauman dobbiamo accettare un fatto: ‘Poiché l’ideale della certezza è al di fuori della nostra portata individuale e collettiva.. la probabilità appare essere il miglior surrogato di cui possiamo disporre’. Questa consapevolezza cozza contro il nostro bisogno di sicurezze ma sia nella vita personale che nella vita sociale e lavorativa occorre attrezzarsi.

Così in ogni organizzazione le tecniche di change management aiutano a ‘tenere gli occhi aperti’ e stimolano innovazione. Prendiamo un esempio rilevante: le future politiche urbane pubbliche. I lockdown hanno accentuato la desertificazione commerciale e residenziale, provocando sentimenti contrastanti tra adattamento e ansia (Censis 2021) soprattutto tra i non garantiti ed ora occorre ricostruire un tessuto economico-sociale attrattivo nelle città, dove peraltro serve mobilità sostenibile. Il Recovery Fund aiuterà ma le amministrazioni locali hanno parecchio lavoro davanti.

Tenere gli occhi aperti comprende anche tecniche e programmi per prevenire e/o affrontare concretamente i rischi. Così le nostre policy pubbliche avrebbero dovuto aggiornare il piano sanitario antiepidemico che invece era fermo… dal 2005.

Anche in azienda sono molteplici i rischi possibili: organizzativi, finanziari o commerciali. Un recente contributo di McKinsey sottolineava tre componenti di un risk management ‘dinamico’: a) considerare nel business plan rischi possibili in rapporto a criticità interne ed esterne; b) analizzare le capacità di affrontarli in ordine di importanza accantonando relative risorse; c) decidere i piani di azione (what if) per ridurne gli impatti. (v.Dynamic risk management for uncertain times -2021)  

Partendo da una scaletta di domande ‘critiche’ si deve preallestire un gruppo di crisi ad hoc supportato da una comunicazione tempestiva e trasparente agli stakeholder. Così nel caso di forti insolvenze il nuovo Codice della Crisi (dl 125/2020 stimolato anche da questa epidemia) indica quattro step che – dopo un’analisi onesta dei motivi – possano evitare il default aziendale garantendo la continuità competitiva o almeno ridurne gli impatti negativi. 

Dunque per ogni processo di cambiamento il gruppo dirigente deve sviluppare (ed ‘oliare’) preventivamente un sistema di knowledge & risk management valorizzando sia le conoscenze/competenze interne ‘nascoste’ sia fonti esterne, a cui far seguire obiettivi, risorse e relative road map. E soprattutto nelle piccole aziende – affannate dalla tremenda quotidianità operativa – occorre l’aiuto di qualche consulente esperto che porti buone pratiche, le quali a volte fanno scoprire anche ‘qualcosa di buono che la crisi ha inaspettatamente suggerito’.

Di fronte al cambiamento nec spe nec metu. Solo programmi concreti.

Il 2020 è stato l’anno del Covid-19 e termini come lo smart working e il distanziamento sociale sono entrati a far parte del nostro vocabolario quotidiano. Questa modalità di lavoro si è senz’altro resa necessaria e utile nel limitare i contatti tra le persone per contenere una pandemia globale, ma ha sicuramente causato una perdita a livello umano. Le relazioni, le dinamiche e lo scambio di informazioni accidentali che si vengono a creare all’interno di un ufficio o di qualsiasi altro ambiente, non potranno mai essere sostituite da un rapporto instaurato tramite il computer, anche se per alcune persone può aver portato dei benefici come una maggiore confidenza nel parlare all’interno delle loro case. Il seguente articolo analizza i maggiori costi a livello antropologico causati dall’insediamento nelle nostre vite di questa nuova modalità di lavoro, con un’analisi sul sense-making e la necessità di interazione umana in un mondo completamente digitalizzato.

In questo articolo pubblicato su theguardian.com si parla di questi aspetti evidenziando ciò se perde lavorando da casa.

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