Questo contributo nasce da una riflessione condivisa svolta con l’amico e consulente di management Carlo Baldassi, dalla lettura di un articolo pubblicato da Harvard Business Review e da un insieme di esperienze personali ricombinate per l’occasione.

Oggi molte associazioni sono in crisi di fiducia

In molte realtà associative locali ed enti non profit, ciò che dovrebbe unire tende a separare. E non si tratta solo di opinioni divergenti su attività o bilanci, ma di fratture più profonde che nascono dal modo in cui si prendono le decisioni e si condividono le responsabilità. Capita, ad esempio, che un presidente venga percepito come accentratore, oppure che un gruppo dirigente non riesca più a dialogare con la base dei soci. A volte, il risultato è una spaccatura. Altre volte, una rassegnata apatia.

Il problema non sta solo in cosa si decide, ma in come. Lo si vede quando un progetto, anche valido, viene bloccato non per la sua qualità, ma perché chi lo promuove non ha saputo costruire il consenso necessario. Oppure perché chi si oppone non ascolta o non viene ascoltato, ma ignorato.

Nel contesto attuale — in cui crescono le aspettative nei confronti delle organizzazioni, ma tali aspettative sono sempre più divergenti — emergono nuove tensioni. C’è chi chiede trasparenza, chi pretende efficienza, chi si aspetta partecipazione piena. A tutto questo si aggiunge una tendenza, sempre più visibile, a forzare o aggirare le regole, spesso in nome della rapidità o del controllo.

Un esempio, tra i tanti che potrebbero verificarsi, è quello di una realtà sportiva dedicata ai ragazzi in cui alcuni amministratori — forti della maggioranza — decidano di escludere altri membri del consiglio direttivo, compreso il presidente. Le accuse potrebbero riguardare la gestione di un progetto percepita come poco trasparente e condivisa, oppure la promozione di un’idea inclusiva del gioco vista come incompatibile con una visione più orientata alla competizione. In casi simili, il dissenso non viene affrontato, ma silenziato. E il risultato rischia di essere un conflitto aperto, capace di danneggiare tanto le relazioni interne quanto la fiducia di chi osserva da fuori.

È proprio in questi casi che emerge la necessità di rivedere non solo le regole scritte, ma anche quelle non dette. Quelle che riguardano il modo in cui si costruisce una visione comune, si gestisce il dissenso, si valorizzano le differenze.

Come funziona una struttura aperta e condivisa

Spesso si immagina che un’organizzazione “aperta” sia qualcosa di caotico, dove tutti dicono la loro ma nessuno decide. In realtà, non è così. Una struttura più orizzontale non elimina la guida, ma la mette in relazione con le persone che ne fanno parte. Quello che cambia non è il fatto che ci sia chi ha responsabilità, ma il modo in cui questa responsabilità si esercita: con ascolto, chiarezza, e attenzione a ciò che si muove intorno.

Una struttura funziona meglio quando:

  • le persone sanno come vengono prese le decisioni;
  • chi guida rende conto non solo del risultato, ma del percorso;
  • si creano spazi per esprimere opinioni diverse senza paura di “rompere l’equilibrio”;
  • le informazioni importanti non sono riservate a pochi, ma accessibili a chi partecipa attivamente.

L’equivoco più comune è pensare che la condivisione indebolisca la leadership. Succede il contrario: una leadership che tiene conto delle opinioni altrui è più solida, perché costruisce fiducia, riduce i conflitti e può contare su un gruppo più coeso. Anche la trasparenza gioca un ruolo chiave: non si tratta solo di pubblicare un verbale o un bilancio, ma di comunicare per tempo, con chiarezza e rispetto, le intenzioni, le scelte, i criteri. Perché ciò che non si dice in modo chiaro, finisce spesso per generare sospetti.

5 possibili pilastri per un’associazione più solida e coesa

Quando un’associazione si trova a ripensare le proprie modalità organizzative, non servono ricette complesse: servono chiarezza, metodo e pazienza. In particolare, ci sono cinque dimensioni che possono fare davvero la differenza.

Si tratta di coltivare valori condivisi, che non si impongono dall’alto ma si costruiscono con il confronto, rendendo chiare le priorità e le scelte che guidano l’attività quotidiana. Favorire un coinvolgimento attivo significa creare spazi in cui ogni voce possa contribuire al percorso decisionale, utilizzando anche strumenti formali come assemblee trasparenti e inclusive.

La comunicazione chiara e accessibile aiuta a prevenire distanze e diffidenze, garantendo che le informazioni arrivino in modo comprensibile e tempestivo. Distribuire meglio i ruoli e le responsabilità permette di ridurre fragilità organizzative e valorizzare competenze spesso latenti. Infine, puntare sulla continuità e sull’adattamento significa saper restare fedeli alla propria identità, senza chiudersi al cambiamento, rileggendo periodicamente obiettivi e strategie alla luce dei risultati e del contesto che evolve.

Affrontare un cambiamento interno non significa ribaltare tutto da un giorno all’altro. Al contrario, serve metodo, pazienza e capacità di riconoscere i segnali che qualcosa può cambiare. Le realtà associative che riescono a trasformarsi sono quelle che partono da piccoli gesti concreti. Non serve inventare nulla: basta iniziare da ciò che già esiste, ma che può essere fatto meglio.

PILASTROCOSA COMPORTACOME METTERLO IN PRATICA
Valori condivisiAvere principi chiari e riconosciuti da tutti.– Raccogliere esempi pratici di comportamento coerente
– Lavorare su parole-chiave da trasformare in contenuti visivi da condividere via WhatsApp, Telegram, newsletter
Coinvolgimento attivoDare spazio alle persone, non solo nei momenti formali.– Incontri informali
– Convocazioni trasparenti
– Gruppi di lavoro misti
Comunicazione chiaraEvitare silenzi o informazioni parziali.– Canali chiari e coerenti (WhatsApp, Telegram, newsletter)
– Aggiornamenti periodici
– Presentazioni visive con Canva o Miro
Ruoli distribuitiRidurre la dipendenza da poche figure chiave.– Mappatura ruoli con Trello o Notion
– Riunioni dedicate per assegnazione incarichi
– Valorizzazione di competenze meno visibili
Continuità e adattamentoEssere fedeli all’identità, ma flessibili nel metodo.– Retrospettive trimestrali
– Sondaggi anonimi con Google Forms
– Ridefinizione degli obiettivi

Obiezioni e dubbi comuni (e come superarli)

Ogni volta che si prova a cambiare il modo di gestire un’associazione, è normale che emergano dubbi e resistenze. Alcuni derivano da abitudini consolidate, altri da timori più profondi legati alla perdita di controllo, al rischio di rallentare i processi o alla paura di esporre conflitti latenti.

Proprio perché queste resistenze sono frequenti e spesso inevitabili, è importante affrontarle con chiarezza. C’è chi teme che un maggiore coinvolgimento di tutti renda impossibile decidere in tempi ragionevoli, chi associa l’idea di guida condivisa a debolezza o disordine, e chi pensa che la trasparenza sia un rischio perché espone l’organizzazione a critiche e discussioni infinite.

Affrontare questi timori non significa ignorarli, ma riconoscerli e dare loro risposte concrete: distinguere i momenti di ascolto da quelli decisionali, chiarire regole e scadenze del confronto, spiegare le motivazioni alla base delle scelte e predisporre strumenti semplici di partecipazione e feedback.

OBIEZIONECOSA C’È DIETROCOME SUPERARLA
“Se coinvolgo tutti, non si decide più nulla”Paura di inefficienza– Fasi separate per ascolto e decisione
– Sondaggi (Google Forms)
– Votazioni su Miro
“Meglio una guida forte che troppe opinioni”Equivoco tra forza e isolamento– Comunicare le scelte prima
– Zoom tematici
– Mappe concettuali con Coggle
“La trasparenza è un rischio”Timore di critiche– Condividere bozze via Drive
– Sezione FAQ
– Referente interno per chiarimenti

Da dove partire: consigli pratici per cambiare passo

Affrontare un cambiamento interno non significa stravolgere tutto da un giorno all’altro. Richiede metodo, pazienza e la capacità di leggere i segnali che indicano quando qualcosa può evolvere. Le associazioni che riescono a trasformarsi sono quelle che sanno partire da un’analisi onesta della propria situazione e compiere scelte semplici ma mirate.

Si tratta di riaprire il confronto sui valori per chiarire insieme cosa tiene unito il gruppo, di mappare ruoli e responsabilità per evitare confusione e sovrapposizioni, di comunicare in modo continuativo per alimentare fiducia e prevenire malintesi. Significa anche rileggere lo statuto con occhio critico per capire se le regole sono davvero allineate alla pratica quotidiana e introdurre strumenti leggeri di ascolto per raccogliere segnali utili al miglioramento continuo.

Ecco alcune azioni semplici ma decisive per attivare un percorso più aperto e consapevole. L’importante è iniziare da un punto concreto, anche piccolo, ma visibile.

AZIONE CONCRETAPERCHÉ È UTILECOME METTERLA IN PRATICA
Riaprire il confronto sui valoriPer chiarire cosa tiene unito il gruppo– Questionari con Mentimeter
– Raccolta parole chiave in gruppo
– Sintesi visuale con Canva
Mappare ruoli e responsabilitàPer evitare confusione e sovrapposizioni– Fogli Google
– Trello per ruoli e task
– Workshop facilitato
Comunicare in modo continuativoPer prevenire malintesi e alimentare la fiducia– WhatsApp broadcast
– Aggiornamenti quindicinali
– Rubrica audio mensile
Rileggere lo statutoPer allineare regole e pratica– Lettura collettiva
– Annotazioni condivise
– Statuto pubblicato e accessibile
Strumenti leggeri di ascoltoPer cogliere segnali utili al cambiamento– Domande post-progetto via Typeform
– Feedback anonimi
– Calendly per colloqui individuali

Conclusione: non si tratta di scegliere tra ordine e caos

Ogni associazione ha bisogno di ruoli e regole. Ma quando questi elementi diventano troppo rigidi, il rischio è l’isolamento e il logoramento.

La sfida non è scegliere tra struttura e apertura, ma riconoscere che servono entrambe. E che è possibile stare insieme in modo ordinato, senza rinunciare alla vitalità del confronto. Chi guida non deve temere il confronto, e chi partecipa deve sentirsi legittimato a portare il proprio punto di vista. La qualità di un progetto, alla fine, si misura anche da quante persone si riconoscono nel percorso che lo ha generato.

Non si tratta quindi di inventare qualcosa di nuovo, ma di riscoprire ciò che già esiste: le relazioni, i valori, le esperienze condivise. E fare in modo che diventino davvero parte del modo di stare insieme, ogni giorno.

Nel panorama economico attuale, le organizzazioni ibride stanno emergendo come modelli di business innovativi che combinano obiettivi economici e sociali. Queste realtà mirano a creare valore sostenibile, bilanciando l’efficienza imprenditoriale con la responsabilità sociale. Si tratta di un approccio che risponde alle esigenze di una società sempre più attenta alla sostenibilità ambientale e sociale e all’inclusione.

Cosa sono le Organizzazioni Ibride?

Le organizzazioni ibride uniscono logiche profit e non-profit. Secondo John Elkington, ideatore del concetto di Triple Bottom Line, queste organizzazioni perseguono tre obiettivi principali: economici, sociali e ambientali. Porter e Kramer, invece, sottolineano l’importanza del “valore condiviso”, dimostrando che il successo economico può essere strettamente legato e misurabile nel progresso sociale e ambientale.

Un’organizzazione ibrida non è solo un’impresa che adotta pratiche sostenibili, ma rappresenta una nuova mentalità imprenditoriale. Integra valori etici e obiettivi sociali direttamente nel proprio modello di business, con l’intento di generare impatti positivi di lungo termine per la società e l’ambiente.

Fra le diverse tipologie di organizzazioni ibride possiamo citare:

Società Benefit: Integrano pratiche trasparenti per bilanciare profitto e impatto sociale, mantenendo obblighi legali di rendicontazione sugli obiettivi di sostenibilità.

B Corp: Certificano standard elevati di sostenibilità e trasparenza, promuovendo la responsabilità sociale e ambientale.

Imprese Sociali: Operano con scopo di lucro limitato, reinvestendo i profitti per il benessere collettivoattraverso iniziative civiche e solidali.

Cooperative Sociali: Offrono servizi e opportunità lavorative per persone svantaggiate, creando un impatto sociale concreto.

Obiettivi e Motivazioni

Le organizzazioni ibride rispondono a pressioni globali come il cambiamento climatico, la crescente disuguaglianza sociale e la necessità di un’economia più equa e resiliente. Esse cercano di affrontare queste sfide sviluppando soluzioni innovative che soddisfino le richieste di consumatori sempre più attenti alla sostenibilità.

Le motivazioni alla base di questi modelli includono la volontà di rispondere alle esigenze del mercato, attrarre investitori etici (es fondi ESG o investitori socialmente responsabili) e ottenere un vantaggio competitivo grazie a una reputazione positiva.

In conclusione, le organizzazioni ibride rappresentano un’opportunità concreta per affrontare la competizione attraverso modelli di business sostenibili e innovativi. Con un approccio strategico basato su governance solida e leadership adattabile, queste organizzazioni possono guidare il cambiamento verso un futuro più equo, inclusivo e sostenibile.

L’importanza di questi modelli va oltre il semplice profitto: promuovono una cultura d’impresa che valorizza l’impatto positivo e la responsabilità collettiva. Investire in organizzazioni ibride significa costruire un’economia più giusta, resiliente e orientata al bene comune. Come scrive il mio collega consulente di management e amico Carlo Baldassi “Anche imprese for profit intelligenti hanno assorbito parte dei valori del non profit e sono finalmente più consapevoli della responsabilità sociale del business anche nel capitalismo attuale. Certificazioni ISO, EFQM, criteri operativi ESG (Environmental, Social, Governance), B Corp ecc. intercettano esigenze reali e rappresentano evoluzioni assai rilevanti del business.”

L’economia, nella definizione proposta da Stefano Zamagni, è da intendersi come “la scienza delle decisioni di soggetti razionali che vivono in società, volta a suggerire linee di azione migliorative del benessere collettivo”[1]. Vale a dire che essa è da intendersi come una scienza sociale che assume una dimensione civile e che rivaluta le posizioni del filosofo ed economista napoletano Antonio Genovesi (1713-1769) che si contrapponevano a quelle del modello dell’economia politica classica.  L’essere umano non viene inteso come nel concetto ripreso da Thomas Hobbes ovvero come “Homo Homini lupus” bensì come “Homini natura amicus” ovvero come soggetto al centro del pensiero economico. In quanto tale, egli è un individuo empatico, cercatore di senso che non agisce unicamente per massimizzare i profitti.

Questo assunto assieme ai principi cardine dell’economia civile, come la generatività, la reciprocità, la gratuità, la fiducia, la fraternità, il senso di comunità, costituiscono il punto di partenza del corso, dedicato a formare la figura del valutatore d’impatto, organizzato dalla Scuola di Economia Civile e da Goforbenefit S.r.l. Società Benefit. La frequenza di questa esperienza formativa mi ha permesso di raggiungere la certificazione delle competenze presso CEPAS[2].

Una teoria economica di mercato fondata sui citati principi è capace di guardare al raggiungimento del bene comune e richiede la proattività dei suoi attori.  Le imprese, e le organizzazioni profit e non profit in genere, attraverso le loro attività devono generare valore per i loro stakeholder (portatori di interessi) in quanto soggetti influenzati dalle loro decisioni ma anche capaci di rivendicare posizioni che determinano le scelte delle aziende. La conseguenza è che il cambiamento che l’organizzazione produce nel suo ambiente di riferimento deve essere misurato e si presta a essere rendicontato attraverso la valutazione dei suoi impatti positivi e negativi.

Cosa si intende per valore generato?  Il tema del valore naturalmente è estremamente ampio e non può essere certo riassunto in questo contributo. Tuttavia, è possibile formulare qualche considerazione prendendo a riferimento i “concetti fondamentali” presentati all’interno del framework dell’IIRC[3] per la predisposizione del report integrato. Secondo questi concetti il valore non viene unicamente creato all’interno dell’organizzazione o da essa individualmente, in quanto è influenzato dall’ambiente esterno, dalle relazioni con gli stakeholder e può derivare da diverse fonti. Esso “si manifesta attraverso gli aumenti, le riduzioni o le trasformazioni dei capitali provocati dalle attività aziendali e dai relativi output”. Il valore è creato sia per i fornitori di capitale finanziario, che valuteranno i loro ritorni economici, sia per altre entità. Esso deve essere considerato in ragione delle interconnessioni fra i “sei capitali” attraverso i quali si organizzano le molteplici attività aziendali: capitale finanziario, capitale produttivo, capitale intellettuale, capitale umano, capitale sociale e relazionale e capitale naturale.

Il Bilancio di esercizio fornisce informazioni sugli aspetti patrimoniali, economici e finanziari, ma non è in grado di trasmettere, da solo, la complessità degli aspetti che fanno riferimento alle dinamiche che influenzano il valore generato. Per questa ragione, noi consulenti di management da qualche anno stiamo imparando a conoscere nuove tecniche di rendicontazione non finanziaria capaci di misurare gli effetti delle attività d’impresa su un piano diverso legato alle strategie per la responsabilità sociale d’impresa e per la sostenibilità. Tale processo ha ottenuto un’accelerazione grazie ad alcune disposizioni di legge: l’obbligo per le società di grandi dimensioni di redigere la dichiarazione non finanziaria[4] e l’obbligo di presentare le valutazioni d’impatto stabilito per le Società Benefit e, a certe condizioni, per alcuni enti del Terzo Settore.

La crescita dell’interesse per la rendicontazione non finanziaria è senza dubbio un elemento positivo per il nostro sistema economico, tuttavia presenta anche qualche rischio. Il bilancio sociale, il bilancio (o report) di sostenibilità, il bilancio ambientale ecc., realizzati liberamente o in conformità alle principali linee guida elaborate a livello nazionale e internazionale, rischiano di diventare strumenti di marketing e comunicazione fini a sé stessi. Se i principi dell’economia civile e la ricerca di una politica per la sostenibilità integrata nelle proprie strategie aziendali non sono dei punti di riferimento per il business dell’azienda, il risultato finale, destinato a esaurirsi in se stesso, sarà quello di aver utilizzato uno metodo di rendicontazione avanzata per fare più o meno consapevolmente un’operazione di greenwashing.

Richiamando alcuni concetti presentati dalla docente universitaria Chiara Mio durante il seminario “L’importante è rendicontare” tenutosi presso il Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale lo scorso ottobre a Milano potremmo chiederci allora, che cosa può un’organizzazione rendicontare e a quali standard di rendicontazione si può appoggiare se nella migliore delle ipotesi ha fatto qualche sporadica iniziativa di Charity o al massimo nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa? Come può un’azienda presentare un report di sostenibilità addirittura utilizzando rigorosi standard come quelli previsti dall’organizzazione Global Report Initiative se non esiste un modello di business elaborato all’interno dei paradigmi della sostenibilità ambientale, sociale ed economica?

Per evitare di incorrere in questo pericolo, il consulente chiamato dalle aziende a operare come valutatore d’impatto deve disporre di conoscenze, metodi e strumenti adeguati a interpretare la situazione e guidare il management verso scelte opportune e legate alla creazione di nuovo valore. Ciò vale anche nella scelta della metodologia per valutare gli impatti e sviluppare la loro rendicontazione. Durante il citato percorso formativo diverse sono le tecniche che sono state presentate: lo SROI, i GRI Standards, il framework dell’IRFC, il BIA e le realtà delle Società Benefit, la matrice del bene comune, la matrice dell’economia civile, il BESA ecc. Il valutatore di impatto deve conoscere queste tecniche e mantenersi aggiornato con ciò che viene continuamente proposto in ambito accademico e consulenziale. Tuttavia, è centrale sottolineare come egli debba porsi come una figura in grado di scegliere le tecniche e gli strumenti opportuni in ragione del contesto nel quale si trova a operare piuttosto che come promoter di uno specifico strumento.

Alessandro Braida

[1] Cozzi T., Zamagni S. (2004), Principi di economia politica, Il Mulino, Bologna – pag17

[2] https://www.cepas.it

[3] L’International Integrated Reporting Council (IIRC) è un ente globale composto da organismi regolatori, investitori, aziende, enti normativi, professionisti operanti nel settore della contabilità e ONG. Il framework per redigere il report integrato sulla base delle indicazioni dell’IIRC è disponiile a questo link: https://integratedreporting.org/wp-content/uploads/2014/04/13-12-08-THE-INTERNATIONAL-IR-FRAMEWORK-Italian.pdf

[4] Il decreto legislativo 254/16 ha introdotto per gli enti di interesse pubblico (società emittenti titoli negoziati sui mercati regolamentati, banche, assicurazioni e altri intermediari finanziari) con più di 500 dipendenti l’obbligo di rendicontazione non finanziaria, ossia la comunicazione, a partire dall’esercizio 2017, di informazioni su sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, catena di fornitura, gestione delle diversità e gestione dei rischi.